Ognuno di noi, nel corso della vita, percorre molte strade. E su queste strade incrocia molta gente. Chi con gli occhi bassi. Chi, invece, con gli occhi vivi, attenti, curioso, interessato a conoscere il suo prossimo e cosa l’abbia spinto a muoversi sul suo stesso percorso. Soltanto questi ultimi istituiscono legami. Nelle società in cui molti umani si sono assuefatti a trasformarsi in cose, i legami tra le persone sono sempre più rari. Forse perché inducono chi li vive a modificare gli sguardi, le mappe, le traiettorie e, generando processi aperti, invitano a mettersi pienamente in gioco. Le parole che seguono riguardano la genesi e l’intensa storia di uno di questi legami.
La strada su cui ho incontrato Georges, nel 1986, era attraversata dalle sbarre di una prigione. Ero finito in cella tantissimi anni prima, nel 1974, dopo alcune esperienze. Il 68 nella facoltà di sociologia di Trento, le lotte sociali del 69 a Milano, i movimenti e le formazioni armate contro un regime politico post-bellico che non voleva saperne di aprirsi al cambiamento e, pur di restare in sella, era disposto a tutto: anche a compiere o commissionare stragi. L’occasione fu un seminario a cui parteciparono attivamente alcuni reclusi, coordinato da Pietro Fumarola dell’insegnamento di sociologia dell’Università di Lecce, che aveva per oggetto la ritualizzazione dei corpi e i linguaggi di rottura delle catene rituali. Durante il suo svolgimento si parlò di molte cose: dei movimenti collettivi metropolitani che un po’ tutti in vario modo avevamo attraversato, degli stati modificati di coscienza e delle transe rituali. La domanda che portò fino a Georges vista oggi appare quasi bizzarra: il 68 – gli chiedemmo - poteva essere visto anche come uno stato collettivo di comunicazione esplosa, qualcosa di prossimo a una transe?
Resta il fatto che egli ci rispose: “Nulla in contrario a vedere le cose in questo modo” – scrisse su un biglietto – “Occorre tuttavia guardare a fondo negli occhi l’ambiguità che si libera in questo genere di disintegrazioni. Perché la transe può significare uno stato accresciuto di coscienza, ma anche un risveglio dei demoni collettivi. Negli stati di coscienza e di comunicazione esplosa – singolari o collettivi – l’esperienza dell’incontro con il ‘ritorno al passato’ e con inedite speranze, con diavoli e dei, giunge inesorabile”.
Quando si spezzano le catene rituali, demoni e dei si contendono il passo e le ‘inedite speranze’ debbono ‘inesorabilmente’ vedersela con i potenti demoni sempre pronti a risorgere dal pozzo profondo del passato.
Pensai che Georges, incubando la risposta alla domanda, avesse ripercorso interiormente le violente correnti culturali e politiche degli anni 70 ed 80 intravvedendo ciò che a me, fino a quel giorno, era rimasto nascosto. Perciò accolsi il suo invito a “guardare a fondo negli occhi” quella ambiguità. Anche perché a fondo, negli occhi, avevo guardato anche lui che un giorno si era presentato nel carcere di Rebibbia insieme a Pietro Fumarola. Era riuscito a farsi dare un permesso per un’ora di colloquio straordinario che dedicammo però più che ai temi del seminario di Lecce a fare commenti sui dispositivi di controllo, avvilenti,che regolavano i colloqui carcerari.
In quello stesso periodo, e il seminario coordinato da Fumarola ne era certamente un primo passo, con Nicola Valentino, anche lui detenuto nel carcere di Rebibbia, avevo cominciato ad interrogarmi sulle risposte che i reclusi danno alla ritualizzazione totalizzante della loro umanità incatenata; avevamo letto il Saggio sulla transe[1] di Lapassade e tenevamo una specie di diario degli stati modificati di coscienza che ci capitava di vivere personalmente o a cui ricorrevano altri intorno a noi. La risposta che Georges aveva dato alla domanda di cui ho detto prima, inoltre, mi aveva stimolato ad approfondire la sua conoscenza. Georges stesso, del resto, mi aveva prontamente fatto avere i libri necessari.[2] Così mi misi a lavorare e cominciai col tradurre Les Etats modifiè di conscience[3] nel quale veniva presentata un’ampia rassegna critica delle principali teorie che li riguardavano nelle varie discipline.
Tradurre obbliga ad entrare in un rapporto attento e cauto con i significati apparenti delle parole e ad incontrare il senso ‘interiore’ del testo. Ciò che maggiormente mi affascinò in quel lavoro fu la chiarezza dell’esposizione. Come se l’Autore avesse lavorato molto su di sé, prima ancora che sulla scrittura, per rendersi trasparenti esperienze molto spesso opache. In quei giorni maturò in me anche la convinzione che Georges con gli stati di coscienza modificati e con la transe avesse un conto aperto, personale. Anni dopo, quando finalmente se ne presentò l’occasione, di ciò ne ebbi la conferma. C’era stato nella sua adolescenza ad Arbus, la cittadina in cui era nato e cresciuto ai piedi dei Pirenei, un tempo in cui la nonna, molto devota, aveva pensato di farlo sottoporre ad un esorcismo pensando che certi suoi tremori fossero la manifestazione di una possessione diabolica. Questo mi confidò quando gli rivelai il mio sospetto e, d’altra parte, in tempi più recenti, m’è capitato di leggere questo aneddoto personale anche nelle pagine di un suo diario di ricerca[4].
Ciò che invece non mi convinse affatto fu la sua interpretazione del ‘cogito di transe’, un pilastro concettuale di quel saggio. Insieme a Valentino cercammo quindi di mettere a fuoco la nostra perplessità, che nasceva dall’osservazione fatta durante innumerevoli colloqui in carcere e dai resoconti delle esperienze sotto tortura rilasciati da molti torturati. In sostanza, condividevamo con Hilgard, Tart e Lapassade il fatto che nelle esperienze di modificazione dello stato di coscienza ‘qualcosa’ al fondo resta sempre lucido ‘come un lumino che rischiara la scena’: l’osservatore nascosto o il cogito di transe, appunto. Ma contestavamo il fatto che questa ‘osservazione attiva, mediante la quale il soggetto conserva la sua lucidità, nulla avrebbe potuto fare per modificare il comportamento del soggetto in transe. Il cogito di transe, nella nostra esperienza, come in quella delle persone sotto tortura che ricorrono allo ‘sdoppiamento’ – allora non era ancora entrata nel lessico di Georges la parola ‘dissociazione’ - quando era davvero in gioco la sopravvivenza stessa del soggetto assumeva un carattere attivo. Ed interveniva. Per questo, concludevamo, prendendo le distanze dalla terminologia psichiatrica e dalla connotazione patologica che ad essa si connette, “lo Stato Modificato di Coscienza non è uno stato deficitario; la transe spontanea non è uno stato patologico. Al contrario, SMC e transe spontanea sono risorse vitali alle quali ogni corpo in difficoltà a vivere può attingere”.
Scrivemmo queste osservazioni in alcune paginette che aggiungemmo come Appendice al nostro resoconto di ricerca sugli stati modificati di coscienza a cui ricorrono molte persone sottoposte a torsioni relazionali nelle istituzioni totali[5]. E le inviammo a Georges insieme al nostro libro.
Ancora una volta egli ci gratificò di una risposta. Che giunse qualche tempo dopo, quando decidemmo di pubblicare insieme, con il titolo Stati Modificati e Transe, nella prima collana di Sensibili alle foglie, la cooperativa di ricerca ed editoriale che nel frattempo avevamo con altri fatto nascere, i due saggi di cui ho detto sopra. Nella Prefazione a quel libro Georges infatti scrisse: “Debbo ritornare, infine, sul saggio Stati Modificati di Coscienza per una messa a punto concernente ciò che ho chiamato ‘cogito di transe’.
Nel mio libro del 1987 (1989 per la prima edizione italiana) presentavo questo “cogito” basandomi sulla teoria dell’osservatore nascosto (hidden observer) esposta da certi teorici dell’ipnosi. Di questa teoria fornivo anche un’altra illustrazione derivata dallo studio degli stati psichedelici, indotti con allucinogeni.
Osservavo al riguardo che, in questi stati di coscienza, una parte del soggetto resta intatto e assiste al delirio dell’io ‘intossicato’.
Considero tutt’ora valide queste descrizioni ma oggi penso che occorra spingersi più lontano e fare l’ipotesi di un Ego di transe altro dall’Ego di veglia, vale a dire dell’Ego che presiede gli stati ordinari di coscienza, (…)
L’ipotesi di un “Cogito di transe” che qui approfondisco, ha dato luogo ad un piccolo dibattito con Renato Curcio. Il quale, in un saggio pubblicato insieme a Stefano Petrelli e Nicola Valentino come appendice del libro Nel Bosco di bistorco (1991), ha opposto alla passività di questo Ego, così come l’avevo inizialmente descritto, una sua caratterizzazione sensibilmente attiva, almeno in alcuni stati modificati di coscienza quali, ad esempio, quelli delle persone sotto tortura e, forse, anche dei prigionieri (salvo, naturalmente, quando essi si abbandonano al godimento ‘passivo’ di certe allucinazioni guidate.
La maggiore autonomizzazione di un Ego di transe che qui propongo, sempre nel quadro della fenomenologia e della sua descrizione di un Ego trascendentale costituente, dà quindi ragione a Curcio allorché, partendo da una lunghissima e perdurante esperienza di reclusione – di cui è in qualche modo anche l’”osservatore partecipante” di se stesso e dei suoi compagni – egli sposta l’accento sull’attività”[6].
L’implicazione di questo ‘spostamento d’accento’ era di grande interesse perché consentiva di guardare agli Stati Modificati di Coscienza come ad importanti risorse cui i soggetti ‘chiusi’ in particolari prigioni relazionali o istituzionali potevano attingere per contrastare il dolore e le sue inesorabili erosioni distruttive. Parlammo a lungo con Georges di questa implicazioni ed egli ritenne così importante approfondirla che si rese pienamente disponibile ad immaginare insieme a noi per Sensibili alle foglie una Collana specifica che chiamammo, non a caso, “Risorse vitali”. Nacque così, dopo un convegno che tenemmo a Roma nel 1994 e molti giorni di lavoro intensivo che svolgemmo insieme a casa mia un percorso editoriale il cui primo libro venne febbrilmente messo insieme, assemblando fogli di appunti ancora manoscritti. In quel libro, cui demmo il titolo Transe e dissociazione, il paradigma sugli stati modificati di coscienza e sulla transe di Georges fece un nuovo salto epistemologico e, sbarazzandosi definitivamente di parole approssimative come ‘sdoppiamento’, ad esempio, e di altre eredità di linguaggio poco chiare, incominciò a snodarsi intorno alla nozione di dissociazione. Fu sempre lui a suggerire di affiancare ai nuovi lavori anche la riproposta di alcuni saggi di epoche passate che egli riteneva indispensabili per attrezzare il pensiero di chi si avvicinava ‘ingenuamente’ alla nuova prospettiva. Testi ‘scomparsi’ e comunque mai tradotti nella lingua italiana che documentavano il tortuoso cammino della nozione di ‘dissociazione’ a partire dalle formulazioni originarie di Pierre Janet, e Moreau de Tour. Al riguardo, ricordo, tra un brodo caldo, di cui era ghiottissimo, e una carezza a Lupa, la mia cagnolina di cui s’era fatto grande amico, si divertiva a ironizzare sul fatto che un gran numero di accademici illustrissimi non perdevano occasione di citare L’Automatisme psichologique di Pierre Janet senza averlo mai letto poiché lui, che se lo era studiato per bene, aveva dovuto sudare sette camice per rinvenirne una copia nelle biblioteche di Parigi.
Anche in questo caso Georges volle ricollegare la sua importante proposta teorica al più modesto lavoro di ricerca che aveva caratterizzato gli ultimi anni della mia esperienza carceraria: “La dissociazione - scrisse - vista fin qui come disturbo viene ora considerata come una risorsa, non solo per le società tradizionali ma anche per la nostra. L’esempio dell’uso della dissociazione come risorsa da parte dei reclusi (Curcio, Petrelli, Valentino 1990; Curcio 1993, 1995) ne è una illustrazione”[7].
Al nuovo paradigma che sviluppava e, in definitiva, sostituiva quello che era stato alla base del suo lavoro precedente, mancò inizialmente, tuttavia, una formulazione della dissociazione estatica che lo soddisfacesse. L’estasi restò a lungo per Georges una spina nel fianco del suo paradigma benché già nel 1996 parlasse apertamente di dissociazione sciamanica. Scherzando, un giorno, ci dicemmo al riguardo che forse ciò era dovuto proprio a quel demone che, stando a sua nonna, lo avrebbe un tempo posseduto impedendogli, anche per il futuro, di vedere la Madonna.
Nel 1975 Lapassade era stato al rito collettivo che si celebra ogni anno il lunedì dopo la Pasqua presso il santuario della Madonna dell’Arco, ma quell’esperienza sul campo non era stata sufficiente per documentare in modo soddisfacente la sua convinzione teorica sulla natura delle ‘crisi’ che si scatenavano davanti all’altare maggiore. Pesava il fatto che Rouget, un’autorità riconosciuta in materia, nel suo famosissimo libro Musica e transe, distinguendo tra estasi e transe collocava la prima in contesti di privazione sensoriale, solitudine, immobilità e silenzio, riservando per la seconda i contesti di iperstimolazione, rumore e movimento. E alla Madonna dell’Arco, nelle campagne intorno a Napoli, non c’era possibilità di equivoci: dominava il rumore, il movimento, il tamburo, il ritmo popolare della tarantella. Proprio come nel Salento, quando ancora era in auge, il rito delle tarantate si svolgeva stimolato dalla danza, dai colori e dai tamburelli che ritmavano la pizzica pizzica. Insomma, la nozione di transe estatica, contraddicendo le affermazioni di accademici blasonati e i pregiudizi dell’istituzione psichiatrica, aveva bisogno di solidi argomenti. Discutemmo a lungo e in molte occasioni di ciò. E nel 1995 dedicammo anche un bel convegno proprio all’estasi invitando ad illustrarci i sui lavori il più interessante ricercatore italiano, Marco Margnelli[8].
Il lunedì in Albis del 1994, decidemmo dunque di recarci, con Pietro Fumarola e Gigetto Dattolico della USL di Napoli, al santuario della Madonna dell’Arco per approfondire insieme quel rito attraverso un’osservazione partecipante di gruppo. L’intenzione era quella di documentare i processi che inducono molti battenti e fujentes, - come vengono chiamati coloro che, scalzi e vestiti di bianco con una fascia azzurra e la cintura rossa, si recano a piedi, in gruppi chiamati paranze - fino al Santuario, dove, una volta entrati, cadono in transe. Non tutti, ovviamente, ma di certo in gran numero. Volevamo assistere di persona a queste transe estatiche, fotografarle, filmarle. Dattolico si era fatto accettare da una paranza di suoi conoscenti e sotto la tunica bianca aveva nascosto una macchina da presa. Georges, Fumarola ed io ci mescolammo invece con la folla e, approfittando della calca e della confusione, riuscimmo a farci spingere fin sotto i piedi dell’altare. L’eccitazione collettiva, le grida, i tamburi, erano assordanti ed effettivamente ci fu chi, proprio di fronte alla statua della Madonna, ebbe la “crisi” e cadde a terra. Alcuni scivolarono sul pavimento e s’irrigidirono in posture catatoniche; altri, rapiti in uno spasmo incontrollato degli arti, presero invece ad urlare alla Madonna angosciate richieste oppure improperi perché non si era interessata al loro caso.
Di queste ‘crisi’ discutemmo anche, in quella occasione, col medico che da vent’anni dirigeva il presidio della unità sanitaria. Quest’uomo era propenso a ritenere che esse fossero la conseguenza della stanchezza, dell’abbassamento degli zuccheri, di un’attitudine locale alle sceneggiate e, tutt’al più, dell’isteria. Georges, ricordo, proprio su questa parola lo incalzò con domande sempre più precise fino a costringerlo alle corde. Dottore, ha mai riscontrato l’arco isterico in chi ha le crisi? Come si manifestano in questa zona di campagna normalmente quelle che lei chiama crisi isteriche? E’ vero che nel santuario c’è un quadro in cui si può vedere una donna che balla?
Il medico fu costretto a riconoscere che mai aveva riscontrato ‘archi isterici’ e che l’isteria nella vita ordinaria assumeva, per ciò che ne sapeva, forme di manifestazione assai diverse. Ripiegò sul concetto di “isteria di fede” e Georges lo ringraziò dichiarandosi soddisfatto: “Sono molto contento di questo incontro, dottore!”
Dicendo queste parole ridacchiava. Aveva avuto un’altra conferma del fatto che le ‘crisi’ nelle modalità a cui avevamo assistito si manifestavano solo nel Santuario e quindi erano programmate culturalmente, riproducevano una liturgia.
Georges era convinto che questi comportamenti derivassero da una sottocultura popolare fedele a un antico rituale di transe discendente dal coribantismo greco. In forme ormai sbiadite, certo, nelle crisi si manifestava dunque una cultura alternativa, pagana, curativa: una liturgia della Grecia antica, diventata col passare dei secoli una corrente carsica. Bagliori di questa cultura, egli osservava in quei giorni, potevano essere rintracciati perfino nella tradizione cristiana delle origini. Nella Bibbia, portava ad esempio, si dice che alcuni profeti scendessero dalle montagne tutti insieme suonando flauti e tamburi. E in un Vangelo apocrifo di San Giovanni si narra che il giovedì santo, in luogo della cena che la memoria ortodossa ci tramanda, in realtà si svolse una danza estatica. Cristo chiamò intorno a sé i suoi 12 apostoli e disse loro: andiamo a ballare. Andarono e lui stesso condusse la danza per unirsi alla divinità, per confondere la sua testa con il cielo.
Era a questa antica liturgia che il Tarantismo del Salento e le Crisi dei fujentes della Madonna dell’Arco andavano ricollegate.
L’analisi istituzionale entrò nel nostro incontro di soppiatto. La cooperativa Sensibili alle foglie cresceva e ci furono commissionate dall’istituzione sindacale alcune ricerche socianalitiche sul mondo del lavoro e sui centri commerciali. Ciò m’indusse a conoscere meglio la lunga storia dell’analisi istituzionale e del suo risvolto socianalitico che, frequentando Georges, entrava e usciva senza soluzione di continuità nel nostro rapporto. Così un giorno, durante un lungo viaggio in macchina che facemmo insieme da Dogliani, la cittadina delle Langhe in cui vivo, a Bordighera, una cittadina ligure scelta dalla SISCC per molti dei suoi incontri annuali sugli SMC, il discorso cadde sul libro “L’analisi istituzionale. Gruppi, organizzazioni, istituzioni”. Pubblicato in Italia nel 1974, quel libro era praticamente introvabile ma io ne conservavo una copia preziosa fattami avere in carcere da Pietro Fumarola, che ostentava sul frontespizio un glorioso ‘visto per censura’. Fu l’incipit di una lunga chiacchierata che, per dire meglio, definirei lezione. Forse, anche per evitare che m’addormentassi, Georges prese da ciò lo spunto per rendermi familiari le parole e i concetti dell’analisi istituzionale. Nel viaggio di ritorno continuò la sua intensa ed affettuosa esposizione e debbo dire che nella mia posizione di allievo al volante gliene fui immensamente grato. Non solo mi tenne sveglio per più di trecento chilometri, ma in quel tratto di strada seminò dentro di me anche una curiosità rinnovata per quel movimento culturale che si allacciava ad antiche passioni coltivate alla fine degli anni 60 ma successivamente congelate. Nei giorni che seguirono, approfittando del fatto che Georges era ospite a casa mia, discutemmo i limiti e i pregi della scuola di Chicago, i nuovi apporti di Garfinkel e della etnometodologia, la fenomenologia di Shultz e le relazioni di questi movimenti con la socianalisi francese. Mi espresse anche, in quell’occasione, le sue preoccupazioni per alcune tendenze che gli sembrava di cogliere all’Università di Saint Denis di istituzionalizzazione dell’analisi istituzionale. Un esito da scongiurare, mi diceva, perché, come s’espresse allora, non era “un metodo” quello da perseguire ma piuttosto un “non-metodo”, una deriva trasversalista, l’invenzione di un dispositivo di ricerca diverso e specifico per ogni situazione.
Poco a poco, mano a mano che le occasioni d’incontro contribuivano ad approfondire la nostra conoscenza, dopo il suo modo di organizzare il pensiero venne anche l’occasione di conoscere la sua solitudine. Quella solitudine che lo accompagnava sempre come un’ombra celata e che lui consegnava con qualche reticenza solo alle pagine dei suoi diari. Un giorno, credo nel 1997, c’incontrammo in occasione di una iniziativa in un centro sociale di Roma. La sua stanchezza era evidente e intorno a lui la richiesta di prestazione eccedeva di gran lunga la sua possibilità di soddisfarla. Mi fu chiaro, in quella circostanza, che Georges come persona interessava assai meno che Georges come parola. La costruzione simbolica di Georges schiacciava impietosamente il suo tentativo discreto di resistervi. L’induzione di questa percezione venne proprio da Georges-persona che, non appena mi vide, mi prese sotto braccio e, con voce avvilita, mi sussurrò: “Renato, portami via di qui, sono troppo stanco!” Mi sembrò di capire che non era soltanto la stanchezza fisica quella a cui si riferiva.
Nel nostro ultimo incontro, a Lecce nel 2007, Georges ormai si muoveva a stento. Tra una dialisi e l’altra trascorreva il suo tempo seduto con gli occhi socchiusi su una poltrona di vimini nel giardino antistante la casa di Piero Fumarola. Parlammo poco del Convegno sull’Analisi istituzionale che era in programma presso l’Università locale. Mi chiese invece notizie della Piccola Occitana, come amava chiamare per gioco e con affetto mia figlia, di mia moglie Marita, e di Lupa, ormai vecchia, che, pur resistendo come lui tenacemente all’età, si preparava ad andarsene per sempre. Nel corso della cena ci sedemmo fianco a fianco e lui scelse di riservare le sue poche parole per un canto corale alla vecchia maniera salentina e di riversare le sue residue energie, una specie di danza ondulatoria che facemmo in piedi, insieme ad altri, tenendoci sotto braccio. Mi piace pensare che quei pochi passi di danza collettiva, accompagnati dalle chitarre, dai tamburelli e dalle voci appasionate del Salento siano stati il suo ultimo omaggio e la sua intima celebrazione della danza estatica. Una battaglia, l’ultima forse, che infine aveva vinto.
Quando ormai a tarda ora lo accompagnai alla macchina che lo avrebbe riaccompagnato a casa ci guardammo negli occhi e ci abbracciammo in silenzio. Fu chiaro ad entrambi che non ci saremmo più visti.
Renato Curcio, 19 settembre, 2008
La strada su cui ho incontrato Georges, nel 1986, era attraversata dalle sbarre di una prigione. Ero finito in cella tantissimi anni prima, nel 1974, dopo alcune esperienze. Il 68 nella facoltà di sociologia di Trento, le lotte sociali del 69 a Milano, i movimenti e le formazioni armate contro un regime politico post-bellico che non voleva saperne di aprirsi al cambiamento e, pur di restare in sella, era disposto a tutto: anche a compiere o commissionare stragi. L’occasione fu un seminario a cui parteciparono attivamente alcuni reclusi, coordinato da Pietro Fumarola dell’insegnamento di sociologia dell’Università di Lecce, che aveva per oggetto la ritualizzazione dei corpi e i linguaggi di rottura delle catene rituali. Durante il suo svolgimento si parlò di molte cose: dei movimenti collettivi metropolitani che un po’ tutti in vario modo avevamo attraversato, degli stati modificati di coscienza e delle transe rituali. La domanda che portò fino a Georges vista oggi appare quasi bizzarra: il 68 – gli chiedemmo - poteva essere visto anche come uno stato collettivo di comunicazione esplosa, qualcosa di prossimo a una transe?
Resta il fatto che egli ci rispose: “Nulla in contrario a vedere le cose in questo modo” – scrisse su un biglietto – “Occorre tuttavia guardare a fondo negli occhi l’ambiguità che si libera in questo genere di disintegrazioni. Perché la transe può significare uno stato accresciuto di coscienza, ma anche un risveglio dei demoni collettivi. Negli stati di coscienza e di comunicazione esplosa – singolari o collettivi – l’esperienza dell’incontro con il ‘ritorno al passato’ e con inedite speranze, con diavoli e dei, giunge inesorabile”.
Quando si spezzano le catene rituali, demoni e dei si contendono il passo e le ‘inedite speranze’ debbono ‘inesorabilmente’ vedersela con i potenti demoni sempre pronti a risorgere dal pozzo profondo del passato.
Pensai che Georges, incubando la risposta alla domanda, avesse ripercorso interiormente le violente correnti culturali e politiche degli anni 70 ed 80 intravvedendo ciò che a me, fino a quel giorno, era rimasto nascosto. Perciò accolsi il suo invito a “guardare a fondo negli occhi” quella ambiguità. Anche perché a fondo, negli occhi, avevo guardato anche lui che un giorno si era presentato nel carcere di Rebibbia insieme a Pietro Fumarola. Era riuscito a farsi dare un permesso per un’ora di colloquio straordinario che dedicammo però più che ai temi del seminario di Lecce a fare commenti sui dispositivi di controllo, avvilenti,che regolavano i colloqui carcerari.
In quello stesso periodo, e il seminario coordinato da Fumarola ne era certamente un primo passo, con Nicola Valentino, anche lui detenuto nel carcere di Rebibbia, avevo cominciato ad interrogarmi sulle risposte che i reclusi danno alla ritualizzazione totalizzante della loro umanità incatenata; avevamo letto il Saggio sulla transe[1] di Lapassade e tenevamo una specie di diario degli stati modificati di coscienza che ci capitava di vivere personalmente o a cui ricorrevano altri intorno a noi. La risposta che Georges aveva dato alla domanda di cui ho detto prima, inoltre, mi aveva stimolato ad approfondire la sua conoscenza. Georges stesso, del resto, mi aveva prontamente fatto avere i libri necessari.[2] Così mi misi a lavorare e cominciai col tradurre Les Etats modifiè di conscience[3] nel quale veniva presentata un’ampia rassegna critica delle principali teorie che li riguardavano nelle varie discipline.
Tradurre obbliga ad entrare in un rapporto attento e cauto con i significati apparenti delle parole e ad incontrare il senso ‘interiore’ del testo. Ciò che maggiormente mi affascinò in quel lavoro fu la chiarezza dell’esposizione. Come se l’Autore avesse lavorato molto su di sé, prima ancora che sulla scrittura, per rendersi trasparenti esperienze molto spesso opache. In quei giorni maturò in me anche la convinzione che Georges con gli stati di coscienza modificati e con la transe avesse un conto aperto, personale. Anni dopo, quando finalmente se ne presentò l’occasione, di ciò ne ebbi la conferma. C’era stato nella sua adolescenza ad Arbus, la cittadina in cui era nato e cresciuto ai piedi dei Pirenei, un tempo in cui la nonna, molto devota, aveva pensato di farlo sottoporre ad un esorcismo pensando che certi suoi tremori fossero la manifestazione di una possessione diabolica. Questo mi confidò quando gli rivelai il mio sospetto e, d’altra parte, in tempi più recenti, m’è capitato di leggere questo aneddoto personale anche nelle pagine di un suo diario di ricerca[4].
Ciò che invece non mi convinse affatto fu la sua interpretazione del ‘cogito di transe’, un pilastro concettuale di quel saggio. Insieme a Valentino cercammo quindi di mettere a fuoco la nostra perplessità, che nasceva dall’osservazione fatta durante innumerevoli colloqui in carcere e dai resoconti delle esperienze sotto tortura rilasciati da molti torturati. In sostanza, condividevamo con Hilgard, Tart e Lapassade il fatto che nelle esperienze di modificazione dello stato di coscienza ‘qualcosa’ al fondo resta sempre lucido ‘come un lumino che rischiara la scena’: l’osservatore nascosto o il cogito di transe, appunto. Ma contestavamo il fatto che questa ‘osservazione attiva, mediante la quale il soggetto conserva la sua lucidità, nulla avrebbe potuto fare per modificare il comportamento del soggetto in transe. Il cogito di transe, nella nostra esperienza, come in quella delle persone sotto tortura che ricorrono allo ‘sdoppiamento’ – allora non era ancora entrata nel lessico di Georges la parola ‘dissociazione’ - quando era davvero in gioco la sopravvivenza stessa del soggetto assumeva un carattere attivo. Ed interveniva. Per questo, concludevamo, prendendo le distanze dalla terminologia psichiatrica e dalla connotazione patologica che ad essa si connette, “lo Stato Modificato di Coscienza non è uno stato deficitario; la transe spontanea non è uno stato patologico. Al contrario, SMC e transe spontanea sono risorse vitali alle quali ogni corpo in difficoltà a vivere può attingere”.
Scrivemmo queste osservazioni in alcune paginette che aggiungemmo come Appendice al nostro resoconto di ricerca sugli stati modificati di coscienza a cui ricorrono molte persone sottoposte a torsioni relazionali nelle istituzioni totali[5]. E le inviammo a Georges insieme al nostro libro.
Ancora una volta egli ci gratificò di una risposta. Che giunse qualche tempo dopo, quando decidemmo di pubblicare insieme, con il titolo Stati Modificati e Transe, nella prima collana di Sensibili alle foglie, la cooperativa di ricerca ed editoriale che nel frattempo avevamo con altri fatto nascere, i due saggi di cui ho detto sopra. Nella Prefazione a quel libro Georges infatti scrisse: “Debbo ritornare, infine, sul saggio Stati Modificati di Coscienza per una messa a punto concernente ciò che ho chiamato ‘cogito di transe’.
Nel mio libro del 1987 (1989 per la prima edizione italiana) presentavo questo “cogito” basandomi sulla teoria dell’osservatore nascosto (hidden observer) esposta da certi teorici dell’ipnosi. Di questa teoria fornivo anche un’altra illustrazione derivata dallo studio degli stati psichedelici, indotti con allucinogeni.
Osservavo al riguardo che, in questi stati di coscienza, una parte del soggetto resta intatto e assiste al delirio dell’io ‘intossicato’.
Considero tutt’ora valide queste descrizioni ma oggi penso che occorra spingersi più lontano e fare l’ipotesi di un Ego di transe altro dall’Ego di veglia, vale a dire dell’Ego che presiede gli stati ordinari di coscienza, (…)
L’ipotesi di un “Cogito di transe” che qui approfondisco, ha dato luogo ad un piccolo dibattito con Renato Curcio. Il quale, in un saggio pubblicato insieme a Stefano Petrelli e Nicola Valentino come appendice del libro Nel Bosco di bistorco (1991), ha opposto alla passività di questo Ego, così come l’avevo inizialmente descritto, una sua caratterizzazione sensibilmente attiva, almeno in alcuni stati modificati di coscienza quali, ad esempio, quelli delle persone sotto tortura e, forse, anche dei prigionieri (salvo, naturalmente, quando essi si abbandonano al godimento ‘passivo’ di certe allucinazioni guidate.
La maggiore autonomizzazione di un Ego di transe che qui propongo, sempre nel quadro della fenomenologia e della sua descrizione di un Ego trascendentale costituente, dà quindi ragione a Curcio allorché, partendo da una lunghissima e perdurante esperienza di reclusione – di cui è in qualche modo anche l’”osservatore partecipante” di se stesso e dei suoi compagni – egli sposta l’accento sull’attività”[6].
L’implicazione di questo ‘spostamento d’accento’ era di grande interesse perché consentiva di guardare agli Stati Modificati di Coscienza come ad importanti risorse cui i soggetti ‘chiusi’ in particolari prigioni relazionali o istituzionali potevano attingere per contrastare il dolore e le sue inesorabili erosioni distruttive. Parlammo a lungo con Georges di questa implicazioni ed egli ritenne così importante approfondirla che si rese pienamente disponibile ad immaginare insieme a noi per Sensibili alle foglie una Collana specifica che chiamammo, non a caso, “Risorse vitali”. Nacque così, dopo un convegno che tenemmo a Roma nel 1994 e molti giorni di lavoro intensivo che svolgemmo insieme a casa mia un percorso editoriale il cui primo libro venne febbrilmente messo insieme, assemblando fogli di appunti ancora manoscritti. In quel libro, cui demmo il titolo Transe e dissociazione, il paradigma sugli stati modificati di coscienza e sulla transe di Georges fece un nuovo salto epistemologico e, sbarazzandosi definitivamente di parole approssimative come ‘sdoppiamento’, ad esempio, e di altre eredità di linguaggio poco chiare, incominciò a snodarsi intorno alla nozione di dissociazione. Fu sempre lui a suggerire di affiancare ai nuovi lavori anche la riproposta di alcuni saggi di epoche passate che egli riteneva indispensabili per attrezzare il pensiero di chi si avvicinava ‘ingenuamente’ alla nuova prospettiva. Testi ‘scomparsi’ e comunque mai tradotti nella lingua italiana che documentavano il tortuoso cammino della nozione di ‘dissociazione’ a partire dalle formulazioni originarie di Pierre Janet, e Moreau de Tour. Al riguardo, ricordo, tra un brodo caldo, di cui era ghiottissimo, e una carezza a Lupa, la mia cagnolina di cui s’era fatto grande amico, si divertiva a ironizzare sul fatto che un gran numero di accademici illustrissimi non perdevano occasione di citare L’Automatisme psichologique di Pierre Janet senza averlo mai letto poiché lui, che se lo era studiato per bene, aveva dovuto sudare sette camice per rinvenirne una copia nelle biblioteche di Parigi.
Anche in questo caso Georges volle ricollegare la sua importante proposta teorica al più modesto lavoro di ricerca che aveva caratterizzato gli ultimi anni della mia esperienza carceraria: “La dissociazione - scrisse - vista fin qui come disturbo viene ora considerata come una risorsa, non solo per le società tradizionali ma anche per la nostra. L’esempio dell’uso della dissociazione come risorsa da parte dei reclusi (Curcio, Petrelli, Valentino 1990; Curcio 1993, 1995) ne è una illustrazione”[7].
Al nuovo paradigma che sviluppava e, in definitiva, sostituiva quello che era stato alla base del suo lavoro precedente, mancò inizialmente, tuttavia, una formulazione della dissociazione estatica che lo soddisfacesse. L’estasi restò a lungo per Georges una spina nel fianco del suo paradigma benché già nel 1996 parlasse apertamente di dissociazione sciamanica. Scherzando, un giorno, ci dicemmo al riguardo che forse ciò era dovuto proprio a quel demone che, stando a sua nonna, lo avrebbe un tempo posseduto impedendogli, anche per il futuro, di vedere la Madonna.
Nel 1975 Lapassade era stato al rito collettivo che si celebra ogni anno il lunedì dopo la Pasqua presso il santuario della Madonna dell’Arco, ma quell’esperienza sul campo non era stata sufficiente per documentare in modo soddisfacente la sua convinzione teorica sulla natura delle ‘crisi’ che si scatenavano davanti all’altare maggiore. Pesava il fatto che Rouget, un’autorità riconosciuta in materia, nel suo famosissimo libro Musica e transe, distinguendo tra estasi e transe collocava la prima in contesti di privazione sensoriale, solitudine, immobilità e silenzio, riservando per la seconda i contesti di iperstimolazione, rumore e movimento. E alla Madonna dell’Arco, nelle campagne intorno a Napoli, non c’era possibilità di equivoci: dominava il rumore, il movimento, il tamburo, il ritmo popolare della tarantella. Proprio come nel Salento, quando ancora era in auge, il rito delle tarantate si svolgeva stimolato dalla danza, dai colori e dai tamburelli che ritmavano la pizzica pizzica. Insomma, la nozione di transe estatica, contraddicendo le affermazioni di accademici blasonati e i pregiudizi dell’istituzione psichiatrica, aveva bisogno di solidi argomenti. Discutemmo a lungo e in molte occasioni di ciò. E nel 1995 dedicammo anche un bel convegno proprio all’estasi invitando ad illustrarci i sui lavori il più interessante ricercatore italiano, Marco Margnelli[8].
Il lunedì in Albis del 1994, decidemmo dunque di recarci, con Pietro Fumarola e Gigetto Dattolico della USL di Napoli, al santuario della Madonna dell’Arco per approfondire insieme quel rito attraverso un’osservazione partecipante di gruppo. L’intenzione era quella di documentare i processi che inducono molti battenti e fujentes, - come vengono chiamati coloro che, scalzi e vestiti di bianco con una fascia azzurra e la cintura rossa, si recano a piedi, in gruppi chiamati paranze - fino al Santuario, dove, una volta entrati, cadono in transe. Non tutti, ovviamente, ma di certo in gran numero. Volevamo assistere di persona a queste transe estatiche, fotografarle, filmarle. Dattolico si era fatto accettare da una paranza di suoi conoscenti e sotto la tunica bianca aveva nascosto una macchina da presa. Georges, Fumarola ed io ci mescolammo invece con la folla e, approfittando della calca e della confusione, riuscimmo a farci spingere fin sotto i piedi dell’altare. L’eccitazione collettiva, le grida, i tamburi, erano assordanti ed effettivamente ci fu chi, proprio di fronte alla statua della Madonna, ebbe la “crisi” e cadde a terra. Alcuni scivolarono sul pavimento e s’irrigidirono in posture catatoniche; altri, rapiti in uno spasmo incontrollato degli arti, presero invece ad urlare alla Madonna angosciate richieste oppure improperi perché non si era interessata al loro caso.
Di queste ‘crisi’ discutemmo anche, in quella occasione, col medico che da vent’anni dirigeva il presidio della unità sanitaria. Quest’uomo era propenso a ritenere che esse fossero la conseguenza della stanchezza, dell’abbassamento degli zuccheri, di un’attitudine locale alle sceneggiate e, tutt’al più, dell’isteria. Georges, ricordo, proprio su questa parola lo incalzò con domande sempre più precise fino a costringerlo alle corde. Dottore, ha mai riscontrato l’arco isterico in chi ha le crisi? Come si manifestano in questa zona di campagna normalmente quelle che lei chiama crisi isteriche? E’ vero che nel santuario c’è un quadro in cui si può vedere una donna che balla?
Il medico fu costretto a riconoscere che mai aveva riscontrato ‘archi isterici’ e che l’isteria nella vita ordinaria assumeva, per ciò che ne sapeva, forme di manifestazione assai diverse. Ripiegò sul concetto di “isteria di fede” e Georges lo ringraziò dichiarandosi soddisfatto: “Sono molto contento di questo incontro, dottore!”
Dicendo queste parole ridacchiava. Aveva avuto un’altra conferma del fatto che le ‘crisi’ nelle modalità a cui avevamo assistito si manifestavano solo nel Santuario e quindi erano programmate culturalmente, riproducevano una liturgia.
Georges era convinto che questi comportamenti derivassero da una sottocultura popolare fedele a un antico rituale di transe discendente dal coribantismo greco. In forme ormai sbiadite, certo, nelle crisi si manifestava dunque una cultura alternativa, pagana, curativa: una liturgia della Grecia antica, diventata col passare dei secoli una corrente carsica. Bagliori di questa cultura, egli osservava in quei giorni, potevano essere rintracciati perfino nella tradizione cristiana delle origini. Nella Bibbia, portava ad esempio, si dice che alcuni profeti scendessero dalle montagne tutti insieme suonando flauti e tamburi. E in un Vangelo apocrifo di San Giovanni si narra che il giovedì santo, in luogo della cena che la memoria ortodossa ci tramanda, in realtà si svolse una danza estatica. Cristo chiamò intorno a sé i suoi 12 apostoli e disse loro: andiamo a ballare. Andarono e lui stesso condusse la danza per unirsi alla divinità, per confondere la sua testa con il cielo.
Era a questa antica liturgia che il Tarantismo del Salento e le Crisi dei fujentes della Madonna dell’Arco andavano ricollegate.
L’analisi istituzionale entrò nel nostro incontro di soppiatto. La cooperativa Sensibili alle foglie cresceva e ci furono commissionate dall’istituzione sindacale alcune ricerche socianalitiche sul mondo del lavoro e sui centri commerciali. Ciò m’indusse a conoscere meglio la lunga storia dell’analisi istituzionale e del suo risvolto socianalitico che, frequentando Georges, entrava e usciva senza soluzione di continuità nel nostro rapporto. Così un giorno, durante un lungo viaggio in macchina che facemmo insieme da Dogliani, la cittadina delle Langhe in cui vivo, a Bordighera, una cittadina ligure scelta dalla SISCC per molti dei suoi incontri annuali sugli SMC, il discorso cadde sul libro “L’analisi istituzionale. Gruppi, organizzazioni, istituzioni”. Pubblicato in Italia nel 1974, quel libro era praticamente introvabile ma io ne conservavo una copia preziosa fattami avere in carcere da Pietro Fumarola, che ostentava sul frontespizio un glorioso ‘visto per censura’. Fu l’incipit di una lunga chiacchierata che, per dire meglio, definirei lezione. Forse, anche per evitare che m’addormentassi, Georges prese da ciò lo spunto per rendermi familiari le parole e i concetti dell’analisi istituzionale. Nel viaggio di ritorno continuò la sua intensa ed affettuosa esposizione e debbo dire che nella mia posizione di allievo al volante gliene fui immensamente grato. Non solo mi tenne sveglio per più di trecento chilometri, ma in quel tratto di strada seminò dentro di me anche una curiosità rinnovata per quel movimento culturale che si allacciava ad antiche passioni coltivate alla fine degli anni 60 ma successivamente congelate. Nei giorni che seguirono, approfittando del fatto che Georges era ospite a casa mia, discutemmo i limiti e i pregi della scuola di Chicago, i nuovi apporti di Garfinkel e della etnometodologia, la fenomenologia di Shultz e le relazioni di questi movimenti con la socianalisi francese. Mi espresse anche, in quell’occasione, le sue preoccupazioni per alcune tendenze che gli sembrava di cogliere all’Università di Saint Denis di istituzionalizzazione dell’analisi istituzionale. Un esito da scongiurare, mi diceva, perché, come s’espresse allora, non era “un metodo” quello da perseguire ma piuttosto un “non-metodo”, una deriva trasversalista, l’invenzione di un dispositivo di ricerca diverso e specifico per ogni situazione.
Poco a poco, mano a mano che le occasioni d’incontro contribuivano ad approfondire la nostra conoscenza, dopo il suo modo di organizzare il pensiero venne anche l’occasione di conoscere la sua solitudine. Quella solitudine che lo accompagnava sempre come un’ombra celata e che lui consegnava con qualche reticenza solo alle pagine dei suoi diari. Un giorno, credo nel 1997, c’incontrammo in occasione di una iniziativa in un centro sociale di Roma. La sua stanchezza era evidente e intorno a lui la richiesta di prestazione eccedeva di gran lunga la sua possibilità di soddisfarla. Mi fu chiaro, in quella circostanza, che Georges come persona interessava assai meno che Georges come parola. La costruzione simbolica di Georges schiacciava impietosamente il suo tentativo discreto di resistervi. L’induzione di questa percezione venne proprio da Georges-persona che, non appena mi vide, mi prese sotto braccio e, con voce avvilita, mi sussurrò: “Renato, portami via di qui, sono troppo stanco!” Mi sembrò di capire che non era soltanto la stanchezza fisica quella a cui si riferiva.
Nel nostro ultimo incontro, a Lecce nel 2007, Georges ormai si muoveva a stento. Tra una dialisi e l’altra trascorreva il suo tempo seduto con gli occhi socchiusi su una poltrona di vimini nel giardino antistante la casa di Piero Fumarola. Parlammo poco del Convegno sull’Analisi istituzionale che era in programma presso l’Università locale. Mi chiese invece notizie della Piccola Occitana, come amava chiamare per gioco e con affetto mia figlia, di mia moglie Marita, e di Lupa, ormai vecchia, che, pur resistendo come lui tenacemente all’età, si preparava ad andarsene per sempre. Nel corso della cena ci sedemmo fianco a fianco e lui scelse di riservare le sue poche parole per un canto corale alla vecchia maniera salentina e di riversare le sue residue energie, una specie di danza ondulatoria che facemmo in piedi, insieme ad altri, tenendoci sotto braccio. Mi piace pensare che quei pochi passi di danza collettiva, accompagnati dalle chitarre, dai tamburelli e dalle voci appasionate del Salento siano stati il suo ultimo omaggio e la sua intima celebrazione della danza estatica. Una battaglia, l’ultima forse, che infine aveva vinto.
Quando ormai a tarda ora lo accompagnai alla macchina che lo avrebbe riaccompagnato a casa ci guardammo negli occhi e ci abbracciammo in silenzio. Fu chiaro ad entrambi che non ci saremmo più visti.
Renato Curcio, 19 settembre, 2008
[1] Georges lapassade,Essai sur la transe, Editions universitaires, 1976; trad. It. : Saggio sulla transe, Feltrinelli, 1980
[2] Les états modifiés de conscience, PUF, 1987; La Transe, PUF, 1989
[3] Les états modifiés de conscience, PUF, 1987
[4] Diario di Vincennes ….
[5] Curcio R., Petrelli S., Valentino N., Nel bosco di bistorco, Sensibili alle foglie, 1990
[6] Georges Lapassade, 10 gennaio 1993. Introduzione a Stati Modificati e Transe, Sensibili alle foglie, 1996
[7] Georges Lapassade, Transe e dissociazione, Sensibili alle foglie 1996
[8] Marco Margnelli, L’estasi, Sensibili alle foglie, 1996
Nessun commento:
Posta un commento