domenica 17 maggio 2009

Le Temps des cerises

Le Temps des cerises est une chanson de 1866, paroles de Jean-Baptiste Clément, musique d'Antoine Renard.

Quand nous chanterons le temps des cerises
Et gai rossignol et merle moqueur
Seront tous en fête
Les belles auront la folie en tête
Et les amoureux du soleil au cœur
Quand nous chanterons le temps des cerises
Sifflera bien mieux le merle moqueur

Mais il est bien court le temps des cerises
Où l'on s'en va deux cueillir en rêvant
Des pendants d'oreilles...
Cerises d'amour aux robes pareilles
Tombant sous la feuille en gouttes de sang...
Mais il est bien court le temps des cerises
Pendants de corail qu'on cueille en rêvant !

Quand vous en serez au temps des cerises
Si vous avez peur des chagrins d'amour
Évitez les belles !
Moi qui ne craint pas les peines cruelles
Je ne vivrai pas sans souffrir un jour...
Quand vous en serez au temps des cerises
Vous aurez aussi des chagrins d'amour !

J'aimerai toujours le temps des cerises
C'est de ce temps-là que je garde au cœur
Une plaie ouverte !
Et Dame Fortune, en m'étant offerte
Ne saurait jamais calmer ma douleur...
J'aimerai toujours le temps des cerises
Et le souvenir que je garde au coeur .

Convivio Georges Lapassade



Bologna, 9-10 maggio 2009

Georges Lapassade, Professeur Emérite all’Université Paris 8, è morto quest’estate, il 30 luglio 2008, a Parigi. Era nato il 10 maggio 1924 ad Arbus, un piccolo villaggio nei Pirenei, nel Sud della Francia e fra i suoi ultimi desideri ha espresso quello di tornare lì, ma ciò non è stato possibile a causa delle cattive condizioni di salute che da anni lo costringevano alla dialisi e che recentemente lo hanno visto spegnersi senza forze. Amava, cantava e voleva sentire cantare "le temps des cerises", il canto che nel 1871 risuonava nelle barricate della Comune di Parigi. Amava vedere i giovani suonare e ballare fino alla transe. Amava gli Gnawa del Marocco, i "pizzicati" del Salento, i canti a tenore e il ballo tondo sardo. Amava tutti quelli che ha stimolato e aiutato a studiare e imparare rischiando, mettendosi in gioco nei conflitti derivanti da una acuta critica sociale permanente. Ospitava a casa sua a Parigi gli studenti che avevano bisogno di stare lì per frequentare l'università. Ha viaggiato molto nella sua vita, andava nelle case della gente e si faceva ospitare, andava nelle università occupate, per esempio in Italia durante la Pantera nel 1990 o nel 1968, quando abitava per tutto il maggio francese nella Sorbona occupata.
Un giorno mi disse che desiderava che la sua casa, di fronte all'Université Paris 8, in cui ero ospite, diventasse dopo la sua morte un luogo in cui ospitare studenti stranieri che ne avessero avuto bisogno e che facessero ricerche sull'interculturalità.
Sociologo, pedagogo, filosofo, etnologo ... non è mai stato possibile inquadrarlo in nessuna disciplina perchè praticava un approccio trasversale rigoroso. Metteva sempre il dito sulle piaghe sociali fedele sempre all'hic et nunc, all'ici et maintenant. Ci lascia un'eredità enorme di pratiche, di riflessioni, di stimoli e soprattutto la voglia di continuare a vivere l'incompiutezza dell'uomo.
Il 10 maggio sarebbe stato il compleanno di Georges Lapassade. L'idea che ho lanciato e sulla quale ho avuto una grande risposta, come si può vedere dall’elenco dei convitati che vi hanno preso parte, è di trovare il tempo e il piacere di incontrarsi con un gruppo di persone che possono condividere le esperienze intense vissute con Georges Lapassade. Oltre alle numerose pubblicazioni, i suoi viaggi e i suoi interventi effettuati in Italia nel corso della sua vita costituiscono la sua eredità principale e tracciano una comunità eterogenea, diffusa dal Sud al Nord Italia, che può incontrarsi, scoprire e sviluppare profonde affinità elettive. Questo convivio, organizzato con l’aiuto degli altri “bolognesi”, esprime il forte desiderio di riflettere insieme sulle pratiche e sul pensiero di Georges Lapassade.
Erano presenti al convivio Remi Hess, Lucette Colin, Christiane Gilon, Patrice Ville (professori dell’Université Paris 8), Charlotte Hess (Danseuse et philosophe, Paris), Giusi Lumare (Dottoranda Université Paris 8), Salvatore Panu (Dottorato Università Paris 8), Anna Lisa Cantelmi (Erborista-Artista, Sulmona), Luisella Carretta (Le Arie del tempo, Genova), Renato Curcio e Nicola Valentino (Ricercatori, Sensibili alle Foglie, Dogliani e Roma), Ornella D’Agostino e Alessandro Melis (Associazione Carovana S.M.I. – Cagliari), Gianni De Martino (Giornalista e scrittore, Milano), Piero Fumarola (Sociologo, Università del Salento), Leonardo Montecchi (Psichiatra e psicoterapeuta, Rimini), Pierfrancesco Pacoda (Critico musicale e saggista), Nicoletta Poidimani (Libera ricercatrice, Milano), Guglielmo Zappatore (Dottorando Università del Salento), Fabio Albano (Musicoterapeuta e psicologo, Bologna), Dimitrios Argiropoulos (Pedagogista, Università di Bologna), Giovanna Artale (Musicoterapeuta, Bologna), Noemi Bermani (Ricercatrice e operatrice didattica, Bologna), Pino De March (Attivista poetico, Bologna), Roberto Panzacchi (Formatore, Bologna), Rosario Picciolo (Livello57, Bologna), Sandra De Giuli (Regista-documentarista, Bologna) e tanti altri che, pur non essendo presenti nella lista degli interventi previsti, hanno contribuito alla dinamica di questo gruppo istituente che si è innescata.
Le due giornate hanno visto quindi la presenza di convitati e non un pubblico convegnistico classicamente inteso in maniera accademica. I partecipanti hanno proposto ognuno un proprio intervento riferito alla propria esperienza personale con Georges Lapassade. Nei due giorni intensi è stato possibile scandagliare, in maniera conviviale e grazie alla viva voce dei convitati, l'opera molto articolata e transdisciplinare di Georges Lapassade. Ritengo che le sue pratiche e il suo pensiero critico siano molto utili oggi per capire le trasformazioni e le possibilità vitali della società contemporanea.
Non si è trattato quindi di una commemorazione, se non nel senso stretto del ricordare insieme. Piuttosto si è tentato di avviare un percorso di ricerca collettiva che attraversi e valorizzi la vasta opera, ormai pubblicata in diverse lingue nel mondo, di Georges Lapassade.
L’iniziativa si iscrive in una sorta di semirario itinerante che ha avuto inizio a Lecce il 5-7 maggio, ha fatto tappa a Bologna il 9-10 maggio e continuerà a Parigi il 23-26 giugno 2009 e più in generale in tutta una serie di iniziative dedicate a Georges Lapassade che si sono svolte in Italia e all’estero in cui si sta ormai elaborando l’idea di fondare la “Libera Università Popolare Georges Lapassade”.
Per ulteriori informazioni e adesioni è possibile visitare il sito http://georgeslapassade.blogspot.com dedicato a Georges Lapassade (1924-2008) in Italia. L'intenzione è innanzitutto di far emergere la rete di realtà che lo ha conosciuto per stimolarne l'informazione reciproca, gli scambi e le possibili iniziative comuni.

Salvatore Panu

Convivio Georges Lapassade a Bologna 9-10 maggio 2009 Intervento di Michel Lobrot

Note sur la vie de Georges Lapassade
Par Michel Lobrot

Georges Lapassade était né en 1924. Il avait donc vingt ans à la Libération (1944) et la cinquantaine (1974-1980) dans la période qui a suivi les événements de 1968, pleine de remous et de transformations. Ces deux dates sont en effet, à mon avis, les deux tournants importants dans sa vie, qui ont amené des changements notables à la fois dans ses conceptions et dans son action.

La libération d’abord, correspond à la fin de son adolescence, au cours de laquelle il a été amené à sortir de son milieu d’origine, grâce à des décisions politiques importantes, en particulier grâce à la décision du gouvernement de Vichy de supprimer les écoles normales. Les normaliens sont obligés d’intégrer les lycées de la région et cela convient particulièrement bien à Georges, qui n’aspire qu’à rejoindre les jeunes bourgeois de Pau et à vivre la vie de cette grande ville.
Cela lui permet de sortir de son milieu, de rompre avec sa famille, ultérieurement de faire des études supérieures à Bordeaux et Montpellier, toutes choses qui répondent à ses aspirations les plus profondes.
Ce désir de rupture s’explique par la manière dont il a été traité dans son milieu familial, en particulier par son père. Il en a parlé abondamment dans ce livre de base qu’est l’autobiographe, du moins dans l’édition belge de Duculot, de 1978. Il est étonnant, voire choquant, de constater que ce texte, très fort et impliqué, ait été expurgé et édulcoré, dans l’édition produite par Ivan Davy en 1997. Georges déclare pourtant, en 2007, qu’il a signé un contrat d’édition avec Duculot (Dans Itinéraires sociologiques)
Dans l’édition de 78 donc, il représente son père comme un homme qui fait pression avec violence pour qu’il réussisse scolairement et qu’il accède à une condition meilleure que la sienne. Ce père lui-même représente assez bien cette nouvelle classe moyenne, issue de la paysannerie, qui est prête à tout pour s’élever socialement. Né dans le Béarn au début du 20 ème siècle, ce père monte très vite à Paris où il essaie de s’intégrer dans l’administration, d’abord comme instituteur, ensuite dans les postes. Il revient tardivement dans le Béarn, à trente ans, après la guerre de 14-18, se marie, fait des enfants et fonde successivement deux petites entreprises familiales d’artisanat liée à la paysannerie (scierie). Il continue en même temps à se livrer à l’agriculture. Autrement dit, il touche à tout : administration, artisanat, agriculture. Il est en marche vers la dominance, ce qui explique ses idées de gauche, qu’il trahit d’ailleurs allègrement.
« Je devais, dit-il dans cette édition, à tout prix passer des examens et les passer avec succès si je ne voulais pas retourner vivre à la campagne et travailler sur les chantiers de mon père » (p. 159) Et encore : « J’ai appris, quand j’étais enfant, le prix des examens, la nécessité d’en passer par là si je ne voulais pas m’enfoncer dans l’ennui mortel d’un petit village, ne pas devenir valet de ferme, comme mon père le voulait quelquefois, et, plus tard, ne pas rester instituteur dans un hameau, au milieu de l’hostilité presque générale des gens » (p.27)
Le père va plus loin dans la répression. « Mon amour pour Maria, dit Georges, donnait aux choses de la vie (….) une intensité qui les rendait plus vraies et qui me fixait (…) Mon bonheur n’ a pas duré longtemps. Mon père est vite intervenu ; il a déchiré un jour la photo de Maria que j’avais mise à mon chevet. Il m’a interdit de la revoir (…. ) Ce jour-là, me disais-je, mon père a détruit mon élan vers une vie sexuelle libre, intense épanouie. Il m’a rejeté, peut-être dans l’intention de m’éviter un échec à mon concours, vers une autre vie que j’ai toujours considérée comme une vie de souffrance, de névrose et d’échec » (p. 116) Le résultat ne se fait pas attendre : « J’ai peur, dit Georges, de tous les contrôles et, surtout, de la vie collective » (p.20)

La chance de Georges est que sa décision de monter à Paris, de faire des études supérieures, de vivre une autre vie ait coïncidé précisément avec l’époque où de nouvelles conceptions de la vie et de l’amour, de nouvelles visions de la vie sociale, de nouvelles pratiques apparaissaient partout.
On n’en finirait pas d’énumérer les rencontres heureuses et positives qu’il put faire dans les années 1945-1960. D’abord, la psychanalyse, qu’il entreprend pour sortir de son homosexualité, mais qui l’enfonce plutôt en elle ; il la poursuit jusqu’en 1963. Ensuite sa rencontre avec des esprits éminents, comme Ferdinand Alquié, Georges Canguihem, etc, ce qui l’amènera à passer l’agrégation de philosophie et à écrire son premier livre L’entrée dans la vie. Encore la possibilité qu’il a de rentrer à L’INOP (Institut National d’Orientation Professionnelle de Paris) où il s’initie à la psychologie contemporaine.
Enfin et surtout, ce qui va le plus l’influencer est sa rencontre avec la pédagogie nouvelle, du fait qu’il est pris comme éducateur de musique au Renouveau de Montmorency où madame François-Unger pratique, avec des petits enfants juifs, des méthodes éducatives extrêmement ouvertes et révolutionnaires. Dans la foulée, il rencontre le mouvement, nouvellement arrivé des USA, de la dynamique des groupes, qui aura sur lui un impact décisif.
Dès lors, il est sur orbite, à 30-35 ans. Il ne lui reste plus qu’à pouvoir, quand il rentre à la résidence universitaire d’Antony dans les années 60, participer à des actions de changement institutionnel et d’agitation sociale. Il s’y engage avec passion. En même temps il rencontre le trotskysme, auquel il n’adhérera jamais complètement mais qui l’influence.
Le plus important pour l’avenir est le mouvement des groupes, issu de Kurt Lewin, qui est le lieu où je le rencontre en 1958. Ce mouvement débouche très vite sur une sorte d’anarchisme constructif, dans lequel trois valeurs sont fondamentales : 1- L’interaction, 2- L’implication, 3- l’autonomie. C’est en fait une nouvelle conception de la vie sociale, fondée sur le lien et le partage.
Georges s’y investit complètement mais à sa manière, qui annonce certaines dérives qui auront lieu par la suite. Ce qui compte par-dessus tout pour lui c’est le « franc-parler », le tout-dire. Il pousse cette pratique jusqu’au paroxysme, à un point tel qu’il se fait rejeter de presque partout, parfois dramatiquement. Paradoxalement, il réalise ce que son ami-ennemi Michel Foucault définira, dans ses cours au collège de France dans les années 80, comme l’idéologie de la Rome finissante à travers le stoïcisme : la parrhésie. Ce terme, qui existe en grec moderne (« parrisia ») signifie une sorte de passion de la vérité, poussée jusqu’à la provocation.
Je le vois, quand nous collaborons ensemble entre 1960 et 1965, spécialement au cours des deux rencontres de Royaumont, faire des prouesses dans cette voie. Mais cela nous permet d’élaborer, au cours de réunions qui ont lieu chaque semaine avec toute une équipe, de définir ce que nous appellerons « la pédagogie institutionnelle », l’ « analyse institutionnelle ». Le terme « institutionnel »signifie que nous n’entendons pas nous réduire à une action sur la « société » en général, mais que nous voulons changer les lieux mêmes où nous travaillons, notre environnement immédiat. Cela signifie-t-il que nous allons nous identifier à eux, les considérer comme l’objectif unique ? La question est grave et va nous diviser.

Il va se produire chez Georges, dans les années 1965-1975, un changement radical, qui va le conduire à mettre au premier plan d’autres valeurs que celles que j’ai énumérées plus haut. Ces nouvelles valeurs, il tentera de les promouvoir dans ces actions à l’étranger et finalement à l’Université Paris 8. Disons tout de suite qu’il met dès lors au premier plan les valeurs de révolte et de rupture, souvent en rejetant les valeurs qu’il avait précédemment servies.
Cela ne veut pas dire qu’il abandonne complètement l’esprit qui avait été le sien antérieurement. Ce n’est pas possible. Il a été marqué par lui et ne peut pas s’en débarrasser complètement. Il va continuer à enthousiasmer les foules grâce à un pouvoir charismatique qui lui vient en grande partie de son engagement et de sa transparence. Surtout, son écriture évolue dans le sens d’une implication accrue, qui va l’amener à des produire des textes bouleversants, tels que ceux qui sortent à partir de 1970 : L’arpenteur (1971) le bordel andalou (1971), les chevaux du diable (1974), Joyeux tropiques (1978) l’autobiographe (chez Duculot, 1978 ). Il assume son homosexualité et se met complètement à nu. Les oeuvres de cette époque sont des chefs-d’œuvre.


Les deux directions que Georges est amené à prendre à partir des années 71 et qui le conduisent à s’écarter de ses implications antérieures sont les suivantes.
Il s’agit tout d’abord d’un intérêt pour la transe, le chamanisme, l’hypnose qui va l’amener à écrire une série d’ouvrages d’érudition, tels que L’essai sur la transe (1976), Gens de l’ombre (1982), Les états modifiés de conscience (1987), La découverte de la dissociation (1998).
La seconde direction, qui apparaît parallèlement, est centrée sur ce qu’on appelle l’analyse institutionnelle. Il s’agit d’une nouvelle pratique en groupe, pouvant déboucher sur la formation, consistant à se centrer prioritairement et parfois exclusivement sur une analyse du contexte institutionnel, des forces en jeu dans l’environnement institué. Elle donne lieu à quelques ouvrages explicatifs ou méthodologiques : L’analyseur et l’analyste (1971), Clés pour la sociologie (avec R. Lourau) (1971) Socianalyse et potentiel humain (1975), Perspectives de l’analyse institutionnelle (1988),
Ces deux directions me paraissent procéder d’une seule et même origine, à savoir de pointer, renforcer, élaborer les pratiques sociales, souvent très anciennes, qui conduisent à une rupture du tissu social, à une dénonciation des pouvoirs dominants, à une remise en cause du système règnant. Il ne s’agit pas seulement de favoriser la mise en place de pratiques ou de structures ouvertes, comme il se passait avec l’autogestion, mais véritablement de former des esprits, de régler des conduites par une voie essentiellement négative d’exclusion dans la transe ou de dénonciation dans l’analyse institutionnelle. Ce qui est en jeu, c’est la possibilité d’une transformation de l’être humain par suppression, un peu comme dans une opération chirurgicale.
La première direction prise, quand Georges rencontre, en 1965, en Tunisie, la musique noire du stambali, manifeste bien les options sous-jacentes. Georges est impressionné par cette musique d’une force considérable, qui est en même temps l’expression de gens deshérités, opprimés, exclus. Au début, il s’intéresse surtout à la musique, qu’il veut transporter partout. Mais très vite, il se rend compte que cette musique débouche sur des états de transe, qu’il met immédiatement en correspondance avec les pratiques de groupe qu’il connaît par ailleurs. Plus tard, il en fera la base des mécanismes agissant dans les groupes de potentiel humain. Il reste fidèle à ses anciennes amours, sans se rendre compte de l’importance que présente la perte de conscience, des changements qu’elle introduit.
Dans les ouvrages qu’il produit par la suite sur ces sujets, il parcourt tout le cycle historique qui va de la transe à l’hypnose et même à la dissociation. Son érudition prodigieuse lui permet de donner une vision synthétique de ces phénomènes, que malheureusement il infléchit selon ses besoins, c'est-à-dire avec le désir de les présenter comme des modèles, ce qu’elles ne sont évidemment pas.
Pour qu’elles deviennent des modèles, il faut en enlever tout ce qui, en elles, évoque trop l’oubli, la perte de sens critique, la suggestibilité. Il se met donc, dans Les états modifiés de conscience, à proposer un « cogito de transe » qui serait une connaissance sous-jacente de tous les phénomènes en jeu, au moment même où ils se produisent. C’est une impossibilité. On ne peut évacuer de la transe la privation de l’activité critique, sinon l’amnésie, sous peine de faire disparaître la transe elle-même.
De même, il s’arrête, dans son exposé, juste avant le moment où la transe se mue, vers 1900, sous l’impulsion de Janet, Bernheim, Binet, en disposition à accepter les suggestions, en suggestibilité ou hyper- suggestibilité. Pourtant ces dispositions prouvent que la transe est vraiment une perte de l’activité critique. Binet ne va-t-il pas, dans La suggestibilité (1900) jusqu’à montrer que les écoliers, non hypnotisés et non en transe, se distribuent selon leur inclination à accepter les suggestions. La transe n’est ni une thérapie ni une preuve d’évolution. Elle est surtout, dans les sociétés hyper fermées, une soupape de sécurité extraordinaire, par oubli et évasion hors du contexte social.

L’autre direction prise, qui aboutit à l’analyse institutionnelle, se réclame au départ d’une réalité incontournable : la nécessité de résister, voire de s’opposer au contexte institutionnel. Il est incontestable qu’aucun travail visant à l’évolution des individus ne peut éviter de transgresser les normes ambiantes, les règles imposées, les mesures répressives. Ceci n’est pourtant qu’un préalable.
L’idée de se centrer entièrement sur l’environnement institutionnel, ce qu’impose l’analyse institutionnelle, ne peut venir qu’à deux types de personnes.
Les uns sont des gens qui sont tellement obsédés par la contrainte instituée qu’elles ne peuvent s’intéresser qu’à cela. Cela n’est pas loin de la paranoîa.
Les autres, dont fait partie Georges, sont des gens, qui, adhérant aux conceptions de Durkheim, s’imaginent que le cadre auquel sont confrontés les individus, entendu comme l’ensemble des stimuli sociaux auxquels ceux-ci sont exposés, fabriquent les individus, les forment, les éduquent. Ceci est une conception mécaniste que toute la psychologie contredit. Les musulmans d’aujourd’hui, qui vivent souvent dans des sociétés modernes avec la technique la plus avancée, se réclament d’un prophète qui a vécu il y a plus de mille ans et règlent leur conduite sur la sienne. Les stimuli sociaux sont en réalité filtrés et déformés par des exigences psychologiques internes, déterminées par des influences spécifiques résultant de courants sociaux. Le cadre ne joue, en tant que tel, aucun rôle.
Georges, dans son livre L’analyseur et l’analyste, déclare solennellement qu’il rejette la dynamique de groupe car celle-ci semble ignorer l’existence du contexte, qui est continuellement là pour biaiser, dénaturer, déplacer les activités de groupe. Cette critique, qui relève directement du durkheimisme, fait fi de la réalité vécue. Celle-ci, qui se solde pour moi par quelques quarante ans de pratique, montre que ce n’est pas le contexte institutionnel qui déforme l’expérience en cours mais la personnalité des gens, qui s’explique par des influences très spécifiques et très ciblées. J’ai personnellement travaillé pendant plusieurs années dans l’Espagne de Franco, protégé par l ’UNESCO, et j’ai rencontré des gens qui étaient loin de se définir par le cadre franquiste. Le travail ne consistait pas à les détacher du cadre mais à les faire évoluer à travers et souvent contre leurs systèmes de référence, qui expliquait parfois leur attachement au cadre.
Georges, très inspiré en cela par R. Lourau, prétend avoir trouvé une méthode extraordinaire pour faire ce travail institutionnel. C’est la méthode des analyseurs. La notion d’analyseur est en réalité très confuse. Quand elle prétend avoir une légitimité scientifique, par exemple quand Rémi Hess voit dans l’esclavage de l’antiquité un analyseur des sociétés antiques, elle se contente au fond de révéler aux yeux de tous quelque chose qu’on préférerait cacher ou que les admirateurs préféreraient cacher. Elle ne révèle rien, ce faisant. L’historien anglais Finley, qui a étudié l’esclavage antique dans un livre qui fait autorité, ne signale pas moins de six ou sept théories qui prétendent rendre raison du phénomène.
La méthode des analyseurs procède de la « théorie du soupçon ». Dans toute société ou dans tout groupe, il y a des choses que les responsables cachent. Il est parfois utile de les révéler. Cependant, les choses les plus dangereuses ne sont pas nécessairement celles qu’on cache. On peut très bien, par provocation et arrogance, afficher aux yeux de tous les intentions les plus noires. Hitler ne cachait pas sa volonté d’exterminer les juifs.

Je fais ici par honnêteté, la critique de Georges. Celui-ci ne procédait pas autrement. Je le répète, Georges nous a surtout appris à crier la vérité….
Et même par rapport aux thèses que je critique, Georges a fini par les mettre en doute et parfois les rejeter. Plusieurs fois, à partir des années 80, il manifeste des doutes concernant la valeur de l’analyse institutionnelle. Concernant la dissociation, il a accepté, dans le livre collectif que nous avons publié ensemble avec P.Boumard, que je soutienne une thèse qui est directement en contradiction avec la sienne, à savoir la distinction radicale entre l’hystérie et la transe.
Georges s’est souvent manifesté comme dogmatique, surtout quand ses thèses procédaient d’inclinations personnelles. Ce n’est cependant qu’un côté de lui. Ce qui le représente mieux, à mon sens, c’est d’une part cette désespérance, ces doutes, ces interrogations sur lui-même, qui s’étalent dans ses grands livres personnels des années 70, surtout dans L’autobiographe, et, d’autre part, sa thèse sur l’inachèvement : L’entrée dans la vie. Personne ne peut prétendre être parvenu à la maturité, l’achèvement. On peut toujours se corriger, revenir sur ce qu’on a dit. Ce qui est achevé est fini.

Paris, Avril 2009.

Convivio Georges Lapassade a Bologna 9-10 maggio 2009

Convivio

Sabato 9 maggio 2009, ore 10-21, XM24, via Fioravanti 24, Bologna
Domenica 10 maggio 2009, ore 10-21, HUB57, via Serra 2, Bologna


L’iniziativa è a cura di Salvatore Panu
la sua realizzazione è resa possibile grazie alla partecipazione e all’ospitalità di tutti i convitati

In collaborazione con

Spazio sociale autogestito XM24, Ass. Cult. Livello 57 (HUB57), Banca del Tempo Momo
Università del Salento, Université Paris 8

Info 340-8964948 http://georgeslapassade.blogspot.com/

Libera Università Popolare Georges Lapassade

Patrick Boumard (Université de Brest) Lapassade et l’université en transe
Lucette Colin (Université Paris 8) Lapassade homme inachevé
Giorgio De Martino (Master II Université Paris 8), Pour une ré-conceptualisation de l’idée de transe et de bioénergie
Christiane Gilon et Patrice Ville (Université Paris 8)
Les 2 axiomes socianalytiques de Lapassade : "analyser est un combat" et "il faut tenir le dispositif"
Charlotte Hess (Danseuse et philosophe, Paris) Lapassade performer
Remi Hess (Université Paris 8) Lapassade sociologue
Michel Lobrot (Universitè Paris 8) Note sur la vie de Georges Lapassade
Giusi Lumare (Dottoranda Université Paris 8) Microsociologia della scuola e ricerca-azione
Salvatore Panu (Dottorato Università Paris 8) Il mito sardo : ricerca-azione e diario di una storia meticcia

Gilberto Camilla (Psicoanalista, Presidente della SISSC e Direttore Scientifico di Altrove, Torino) Il burbero fragile
Anna Lisa Cantelmi (Erborista-Artista, Sulmona) Transiat
Luisella Carretta (Le Arie del tempo, Genova) Transire / quotidianità e creatività
Renato Curcio (Ricercatore, Sensibili alle Foglie, Dogliani) La sociologia profana di Georges
Ornella D’Agostino e Alessandro Melis (Associazione Carovana S.M.I. –Cagliari)
Il corpo luogo d’identità. Tracce di percorsi artistici condivisi con Gorge Lapassade
Roberto De Angelis (Università La Sapienza) Lapassade in campo e l'ostacolo etnografico
Gianni De Martino (Giornalista e scrittore, Milano) Georges in Marocco
Piero Fumarola (Sociologo, Università del Salento) L’esperienza nel Salento
Leonardo Montecchi (Psichiatra e psicoterapeuta, Rimini) Transe e dissociazione : la transe come risorsa vitale.
Anna Nacci (Tarantula Rubra, Roma) Tarantismo e neo-tarantismo
Pierfrancesco Pacoda (Critico musicale e saggista) L’invenzione del Tarantamuffin
Andrea Pascali (Sociologo e semiologo, Torino) Il concetto di congruenza nella socioanalisi
Nicoletta Poidimani (Libera ricercatrice, Milano) Uno dei miei più importanti cattivi maestri
Nicola Valentino (Sensibili alle Foglie, Roma) Il sogno e l’analisi istituzionale
Guglielmo Zappatore (Dottorando Università del Salento) Georges e il misticismo

Fabio Albano (Musicoterapeuta e psicologo, Bologna) Bioenergia e potenziale umano
Dimitrios Argiropoulos (Pedagogista, Università di Bologna) Marginalità urbane : andar per i campi “nomadi”
Giovanna Artale (Musicoterapeuta, Bologna) Dialoghi
Noemi Bermani (Bologna) L’albero della cioccolata
Franco Berardi “Bifo” (autore di “Come si cura il nazi”) Lapassade è il corpo tarantolato di Guattari
Pino De March (Attivista poetico, Bologna) La poetica di Lapassade : transidentità
Roberto Panzacchi (Formatore, Bologna) L'autogestione pedagogica: ognuno ha qualcosa d'importante da dire e da ascoltare
Rosario Picciolo (Livello57, Bologna) Georges e Vento
Sandra De Giuli (Regista-documentarista, Bologna)


Proiezioni video
Lila, la derdeba degli Gnawa a Bologna, 11 febbraio 2000, di Amalia Goffredo
Immagini street parade antiproibizionista e interviste inedite a Georges, a cura di Massimo Lorenzani (Lab57 Alchemica)
Il lunedi in albis, la Madonna dell’Arco, Napoli, 1994, di Gigetto Dattolico
Georges Lapassade, funambule du paradoxe, réalisateurs: Luc Blanchard et Rosemarie Bouvet

Convegno in Salento, All'ombra di Georges Lapassade

Il paese nuovo, culture, 7 maggio 2009, seconda parte

Il paese nuovo, culture, 6 maggio 2009, prima parte

venerdì 15 maggio 2009

Università popolare “Georges Lapassade”

Carissimi, in allegato (e di seguito) trovate il progetto a cui stiamo lavorando, che vi proponiamo per aprire un confronto e capire il vostro interesse a collaborare tanto alla nascita quanto alla vita di questa università popolare.

Fateci sapere cosa ne pensate.
un saluto affettuoso

Nicola, Renato, Marita e Piero per Sensibili alle foglie

Progetto per la

Università popolare “Georges Lapassade”

Vogliamo aprire un’università popolare dedicata a Georges Lapassade che, in una prospettiva interculturale ed europea, proponga corsi e diplomi di analisi istituzionale e socianalisi. Scopo principale di questo progetto è far conoscere ad un pubblico il più vasto possibile l’esperienza del movimento istituzionalista, gli studi sugli stati modificati di coscienza e la transe, formare al pensiero istituzionalista e socianalitico il numero maggiore di studenti, operatori sociali, persone e gruppi sociali interessati in generale.

Scopo non secondario (per la cooperativa Sensibili alle foglie che se ne fa promotrice e per gli associati) è aumentare le opportunità di lavoro in questi ambiti.

L’università popolare “Georges Lapassade” dovrebbe essere pertanto uno strumento per raggiungere tutti quegli utenti che i singoli organismi associati non riescono a raggiungere e ad interessare con la loro attività attuale.

Il percorso burocratico per fondare l’università è il seguente:

ci si costituisce con atto notarile in associazione denominata Università popolare “Georges Lapassade”. Preliminarmente si tratta di scrivere uno statuto essenziale e molto semplice, su cui ci si confronta e ci si accorda. Le spese (notarili e di registro) vengono divise tra gli associati.
si fa richiesta di associare questa nuova istituzione alla Confederazione Nazionale delle Università Popolari Italiane CNUPI, che, essendo accreditata presso il Ministero dell’Istruzione, trasferisce sugli associati questo accreditamento.
C’è in proposito la disponibilità di un’altra università popolare, di musicarterapia, a scrivere una lettera di presentazione per la nuova università.

Per questo percorso ci serve:

1. individuare i soggetti con i quali fondare l’associazione. A questo scopo inviamo questa proposta, per raccogliere adesioni, riflessioni, intenzioni, ecc.

2. individuare la disponibilità di ricercatori, docenti, a partecipare attivamente alla vita della nuova università, promuovendola, proponendo e realizzando corsi specifici. A questo proposito Sensibili alle foglie propone il lavoro dei suoi soci sui territori che le sono propri (Vedi allegato A).

3. individuare una persona fisica che assuma la rappresentanza legale dell’associazione. Ogni soggetto o organismo associato può proporre un candidato. Sensibili alle foglie candida il socio professore Pietro Fumarola.

4. individuare una sede legale per l’associazione. Su questo punto, l’università si propone di essere itinerante, (non essendo necessario che abbia sue aule attrezzate) pertanto si potrebbe iniziare con un qualsiasi indirizzo che sia funzionale al legale rappresentante. Si potrebbe tuttavia anche esplorare la possibilità che in alcune regioni viene data da apposite leggi regionali che prevedono l’intervento dei Comuni nell’assegnare una sede alle università popolari, per promuovere lo sviluppo della cultura. Non sappiamo al momento quali siano queste regioni, ma ci riserviamo di essere più precisi in merito.

Le attività che vogliamo realizzare attraverso la creazione di questo strumento di lavoro si dividono in due gruppi:

1) corsi e seminari con conferimento di attestati e diplomi che, tuttavia, se non sono riconosciuti a livello regionale, non hanno alcun valore spendibile per i partecipanti.

2) corsi di formazione o master post-universitari che costituiscono crediti formativi spendibili per carriere professionali facendo delle convenzioni con Università statali.



1) corsi e seminari con conferimento di attestati e diplomi senza valore spendibile per i partecipanti.

1a) si può lavorare inizialmente in questo modo, contando sul fatto che la nuova università acquisti prestigio e contemporaneamente accumuli un minimo di curriculum a partire dal quale si possa chiedere a qualche organismo regionale (ci ripromettiamo a breve di saper indicare quale) il riconoscimento.

1b) Vanno tenute presenti due considerazioni. La prima è l’esempio della psicanalisi, che ci induce a riflettere sul fatto che l’unicità e il prestigio della nuova università potrebbero anche acquistare una forza sufficiente a poter raggiungere in maniera soddisfacente il suo scopo sociale.

1c) La seconda è che, tuttavia, in assenza di crediti spendibili, gli iscritti siano pochi e comunque debbano avere già una sensibilità per i temi oggetto di insegnamento, e che questi limiti potrebbero vanificare lo scopo della nuova università, che si propone al contrario di allargare e diffondere, aldilà dei limiti che i singoli associati rilevano nella loro esperienza attuale, il pensiero istituzionalista e quegli altri territori ai quali Georges Lapassade ha dedicato la sua vita.

2) corsi di formazione o master post-universitari che costituiscono crediti formativi spendibili per carriere professionali facendo delle convenzioni con università statali.

2a) questa lettera ha anche lo scopo di capire chi tra gli associati potrebbe dare una mano in questa direzione. I master vengono approvati dagli organi dirigenti delle università e pertanto si tratta di capire con quali università si possa aspirare a fare una Convenzione. Quest’ultima prevede che l’iscrizione (e il pagamento della relativa tassa) vengano fatti presso la segreteria dell’università statale convenzionata, mentre la nuova università svolge la funzione della segreteria didattica. Il pagamento dei corsi o altre spese avviene dietro rendicontazione e l’università statale mediamente trattiene circa il 30% della tassa di iscrizione dei partecipanti.

2b) Vanno anche qui considerati tre fattori. Il primo concerne l’opportunità che queste Convenzioni (da stipulare con più università, italiane e possibilmente anche estere) porterebbero alla nuova università di raggiungere studenti e operatori in carriera altrimenti in attingibili dai singoli associati.

2c) Il secondo è direttamente legato al prestigio che ne deriverebbe per la nuova università.

2d) Il terzo e non ultimo fattore è di carattere economico, vale a dire che i corsi, se pure in un certo senso “sotto-pagati” potrebbero avere una continuità e garantire ai singoli associati alla nuova università una piccola risorsa stabile nel corso dell’anno.


Siamo pertanto a chiedere a ciascuno di Voi l’interesse e la disponibilità a collaborare per la realizzazione di questo progetto, di cui qui sono tracciate in maniera sommaria le direttrici che proponiamo, ma che naturalmente è tutto da costruire e immaginare, mettendo insieme le intelligenze, le competenze e le possibilità derivanti dal ruolo di ciascuno.

Vi invitiamo a dirci cosa ne pensate e dove vi potreste collocare in merito a quanto sin qui esposto.

E naturalmente, prima di tutto, vi ringraziamo per l’attenzione che ci avete prestato.


ALLEGATO A

Prospetto di sintesi dei corsi proposti da Sensibili alle foglie all’Università Popolare “Georges Lapassade”


1. L’analisi istituzionale

2. La socianalisi narrativa

3. L’analisi interna

4. La dissociazione identitaria come risorsa

5. La risorsa della creatività

6. Le istituzioni totali



1. L’analisi istituzionale.

I concetti generali dell'analisi istituzionale (le sue origini, le sue applicazioni, le sue nozioni fondamentali); con una particolare attenzione alle sue parole chiave (gruppo, organizzazione, istituzione, processo, momento, istituito, istituente, autonomia personale, autogestione del collettivo, trasversalità, dimensioni immaginarie).

2. La socianalisi narrativa

Modalità e tecniche dell’analisi istituzionale sul campo che vengono utilizzate da Sensibili alle foglie per costruire cantieri di ricerca autogestiti nei gruppi sociali, nelle organizzazioni e nelle istituzioni. Con un particolare approfondimento del rapporto tra narrazione breve e messa a fuoco dei dispositivi relazionali.

3. L’analisi interna

Le tecniche basilari della socianalisi autogestita dall’interno di un gruppo, di un’organizzazione o di un’istituzione. In particolare: l’istituzione del cantiere di analisi interna, il campo di partecipazione, il campo di osservazione, il campo di trasformazione, gli osservatori e la loro implicazione; gli eventi analizzatori, la vita quotidiana, la dissociazione ordinaria; la conversazione di deriva, la narrazione breve e il dialogo socratico; il diario di percorso.

4. La dissociazione identitaria come risorsa e come pericolo

Messa a fuoco del paradigma della dissociazione, a partire dalle sue origini (Janet) e nei suoi sviluppi teorici (Hilgard, Ludwig, Lapassade); una lettura dell'esperienza dissociativa considerata come esperienza umana universale, non patologica.

5. La risorsa della creatività

Un’esplorazione della dimensione antropologica della creatività nelle sue diverse manifestazioni espressive, quale elemento capace di favorire un’ecologia della vita di relazione e rimettere al centro la persona, senza mortificarla; capace, dunque, di promuovere il presupposto basilare di una cittadinanza solidale e sensibile.

6. Le istituzioni totali

La nozione di istituzione totale e le principali letture che ne sono state date nel 900 (Foucault, Goffman, Basaglia, ecc.). In particolare, la nozione di dispositivo totalizzante: partendo da un’istituzione totale di riferimento (carcere, campo di concentramento, ecc.) si mostrano i fondamentali dispositivi che regolano le sue dinamiche istituzionali con proiezioni sui dispositivi totalizzanti che si annidano anche nelle istituzioni ordinarie.

mercoledì 15 aprile 2009

Entretien avec Georges Lapassade

Entretien collectif avec Georges Lapassade
réalisé par

Amélie Grysole à la camera
Augustin Mutuale, Benyounés Bellagnech, Alain, Laurent Kallyt au dialogue
Aziz Kharouni au son et à la retranscription

L'entretien de Georges a été publié dans "les irrAIductibles", revue planétaire d'analyse institutionnelle, N°11, avril 2007, Université Paris 8


Augustin Mutuale : Il y a la parole et l’écriture. Plusieurs entretiens pourraient donner un visage à ce numéro sur l’Afrique où la parole est vivante, où même écrite, elle reste tout de même parole.

Amélie Grysole : Ce sera un élément intéressant tout de même. Juste avant de continuer, je voudrais demander à Georges si cela ne l’embête pas qu’on filme. (Georges est d’accord).

Augustin : Georges, on va t’interroger avec un certain dispositif. Avec quel dispositif, va-t-on t’interroger ?

Benyounès Bellagnech : On va t’interroger à l’aide du dispositif de l’entretien collectif. C’est ouvert, Augustin l’a ouvert à l’occasion de l’entretien d’aujourd’hui. On va plutôt que de t’expliquer le dispositif, le pratiquer aujourd’hui et revenir par la suite sur la restitution pour voir ce qu’a donné la discussion. Nous en avons discuté vendredi dernier. Nous voulions savoir ce que t’avait apporté l’Afrique. Par exemple, comment se fait-il qu’à un moment donné, tu t’es retrouvé à aller chaque année au Maroc, pour travailler au départ sur la possession, ensuite sur les Gnaouas, sur Essaouira ... C’est de ce parcours-là qu’on voudrait que tu nous parles.

Georges Lapassade : Je vais essayer de répondre, de donner une réponse possible et ce n’est peut-être pas la seule. Avant d’aller au Maroc travailler sur les Gnaouas…, j’avais découvert les Gnaouas, mais très peu. Le mot est très peu utilisé. En Tunisie, il y a une communauté importante de Noirs. Pour laquelle, je vous conseille, je vous suggère à consulter deux chercheurs, auteurs d’ouvrages, d’une part Abdelhafid Chlyeh pour les Gnaouas du Maroc et Rihda Ennafa, enseignant en sciences de l’Education, qui habite maintenant à Paris, dont je ne connais pas l’adresse. Vous pouvez la retrouver en lui demandant de ma part. Je suggère cette double possibilité avec A. Chlyeh qui a écrit sur les Gnaouas du Maroc et l’autre qui a écrit des articles sur ceux de la Tunisie.

Benyounès : Ton premier voyage, en Afrique, c’était dans le cadre de la coopération ?

G. Lapassade : Oui, j’étais coopérant en Tunisie, plus exactement à l’université de Tunis à partir d’octobre 1965. Je me suis tout de suite intéressé au Stambali ; c’est-à-dire au rituel des Gnaouas de Tunis. Ce qui m’a amené à me poser des questions sur la communauté noire de Tunisie et l’ensemble des problèmes culturels des Noirs. Et, c’est comme cela que j’ai appris quelques mois plus tard, vers mars-avril 1966, l’organisation du premier festival des Arts Nègres. Ils l’ont appelé ainsi, car il était à l’initiative de Léopold Senghor qui était le chantre de la négritude avec Aimé Césaire et quelques autres d’une part, et d’autre part André Malraux qui était ministre de la Culture de De Gaulle. Ensemble, ils ont produit cet énorme festival. C’était le premier et il n’y en pas eu d’autres ensuite, à ma connaissance. Ils avaient produit le premier festival mondial des Arts Nègres où se sont retrouvés des Noirs d’Amérique, d’Afrique, de la Jamaïque, des Antilles, bref, de partout. Je me suis rendu à ce festival. C’était le premier voyage que je faisais en Afrique noire, c’était à Dakar. C’était très riche. A ce festival de Dakar, en avril 1966, j’étais avec Jean Rouch qui était un africaniste très connu. Nous avons assisté ensemble à un rite de possession le Ndepp sénégalais, c’étaient des (inaudibles –descendants du peuple Lebou), c’est-à-dire des pêcheurs de la Côte atlantique du Sénégal. J’aurais beaucoup à dire sur ce rituel qui était beaucoup plus complet, riche, plus développé ; cela a duré une semaine entière, avec des phases bien déterminées, des sacrifices …
La création de l’autel que j’ai appelé l’autel de la dissociation. Je n’ai pas assisté à tout, mais j’y étais aux grandes étapes du Ndepp. De ce rituel que Balandier décrit dans son ouvrage L’Afrique Ambiguë où il a consacré tout un chapitre sur le Ndepp et l’Afrique.
D’ailleurs, je ne sais pas pourquoi, j’ai parlé des Gnaouas lors d’une émission radio à Dakar et cela était arrivé aux oreilles du président Léopold Senghor qui, quelques temps après, était venu en visite officielle en Tunisie. Il m’a invité à le rencontrer. C’était un entretien très cordial, très amical où il disait que pour lui, Bourguiba était un ami, mais que pour Bourguiba, il était son petit nègre.

Benyounès : C’est à partir de là et en tant qu’enseignant que tu as fait venir un groupe de Stambali pour faire une représentation au sein de la faculté de Tunis ?

G. Lapassade : Je ne sais pas, je ne crois pas car on m’avait dit que ce n’était pas possible. Les étudiants m’avaient dit que c’était très secret. Dans les familles, c’était fermé, tu ne pouvais pas y avoir accès. Ce dont ils avaient tort d’ailleurs. Il faudrait que tu en organises toi-même un. Mais, moi, je n’avais pas une famille à traiter, je ne pouvais pas avoir le concours des noirs du Stambali. Mais j’en ai organisé un dans un Institut de sports, cela a provoqué un scandale parce que les garçons et les filles se sont mis à danser, mais à danser… mais danser à la manière des danses modernes. Aussitôt, le directeur de l’Institut des sports a téléphoné au ministre qui m’a convoqué. Cela a fait un scandale et cela a affaibli ma position à Tunis où je suis resté un peu plus d’un an. Mais ils n’ont pas fait le rituel. Ils ont fait leur musique et cela a fait danser. On dit que les Gnaouas… Moi-même j’ai fait un article, un entretien. L’intervieweur qui a publié l’article de nos entretiens, l’article a été publié dans Jeune Afrique…. Pourquoi j’ai parlé de lui, mais cela m’a échappé, je ne me rappelle plus du début de ma phrase.

Benyounès : Tu étais en train de parler de comment s’était déroulé le rituel que tu avais essayé d’organiser et qu’il n’avait pas fonctionné comme tu le voulais.

G. Lapassade : Et qui n’a pas fonctionné comme rituel. D’ailleurs, je voulais, à ce propos, (c’est des propos complètement décousus que je tiens là) dire que contrairement à ce qui s’est dit, un peu partout, dans les journaux où l’on a dit, même dans l’article, l’entretien dont l’auteur est celui qui m’a interviewé, celui qui a publié l’article dans Jeune Afrique, j’ai oublié son nom…

Augustin : Olivier Barlet

G. Lapassade : Olivier Barlet, c’est un spécialiste de l’Afrique et du cinéma africain en général. Il a intitulé cela, Les Gnaouas, thérapeutes de la différence. Je pense que cela est un peu abusif de présenter les Gnaouas comme des thérapeutes, bien que si on leur demande, ils disent oui, sur le plan publicitaire à cette image de musiciens thérapeutes, mais en fait, il faut le préciser, même si on ne parle pas davantage des Gnaouas aujourd’hui, ce ne sont pas les Gnaouas qui font la thérapie, mais c’est la thérapie d’une voyante, d’une voyante. Peut-être, parmi les Maghrébins, ici, toi Benyounès, peut-être Aziz et d’autres, s’il est au courant quand il y a thérapie, mais pas thérapie dans le sens psychanalytique mais ce que j’appellerais une thérapie de la dissociation. Le ou la responsable de cette thérapie, c’est le voyant ou la voyante qui fait appel, entre autres, aux Gnaouas pour assurer un moment thérapeutique comme dans le Ndepp auquel j’ai fait allusion. Le rituel de possession sénégalais, les danses de possession viennent clôturer une semaine d’actions ou d’actes thérapeutiques dont le plus important, le jeudi, c’est le sacrifice d’un animal et la construction d’un autel sur des poteries qui contiennent les boyaux de cet animal. Donc, le rite de possession collectif, les danses de possession collective sont spectaculaires menées d’ailleurs par un guérisseur ou une guérisseuse. Les danses de possession, dans le quartier où il y a eu l’intervention, viennent le dernier jour pour clôturer une semaine thérapeutique, dont probablement l’acte fondateur le plus important, pour la première fois, c’est le sacrifice conduisant le même jour à la création d’un autel sur lequel on pourrait faire des offrandes au rab (part dissociée de la personnalité). C’est pourquoi, je dis que c’est un autel de la dissociation parce qu’au départ, il y a l’idée d’une possession plus ou moins par le rab qui est un animal, un être mystérieux, un peu comme un djinn comme dans les pays arabes…Donc, cet esprit possesseur tourmente une personne et ce qu’on appellera la thérapie en langage occidental consiste à libérer, à soulager cette personne, non pas par la suppression du symptôme qui est l’origine du trouble qui est une possession mal vécue. On ne met pas fin à la possession, mais on la déplace, c’est-à-dire cet esprit, ce rab qui tourmente la personne, n’est plus dans la personne tourmentée mais dans cet autel où la personne, pendant toute sa vie, va porter des offrandes, du lait et autres produits.
Si vous voulez, c’est intéressant du point de vue de la thérapie africaine. C’est une thérapie de réconciliation du possédé et de son possesseur qui est considéré comme bénéfique. Ce qui est très différent de l’unique forme de possession que l’on connaît et que l’on a connu en Europe qui est la possession diabolique. Et puisque c’est une possession diabolique, on ne peut pas se réconcilier avec le diable. Le diable doit être expulsé, c’est un exorcisme. Ce qui est très important en Afrique, dans la culture africaine, il y a aussi de l’exorcisme en Afrique, mais il y a cette pratique inconnue, non pratiquée dans l’ensemble de l’Europe à part quelques exceptions ; il y a une pratique adorciste qui consiste à construire une réconciliation. Donc, une sorte d’arrangement avec la dissociation. Ce n’est pas seulement une pratique pour mettre fin à la dissociation pathologique car il y a des dissociations qui ne sont pas pathologiques. Cela est une autre affaire, on peut en parler, si vous voulez, mais la dissociation pathologique, c’est l’éclatement de l’identité chez le possédé occidental qui prétend être possédé par le diable, par un mauvais esprit. La seule solution, c’est de faire partir cet esprit, c’est de le chasser. C’est de l’exorcisme ; tandis qu’en Afrique, très souvent, ce n’est pas de le chasser, c’est de l’amadouer et de faire ami ami avec lui.

Benyounès : Cohabiter.

G. Lapassade : Cohabiter, cela est très important pour l’étude du rite africain, on en est là. Quand on parle des Gnaouas de façon trop rapide, on pense qu’ils sont des exorcistes. Comme je viens de le dire et je le redis, ce ne sont pas les Gnaouas qui sont les thérapeutes, c’est une voyante, une thérapeute. Il y a deux appellations de voyantes au Maroc. La voyante, habituelle, celle qui tire les cartes, celle qui lit dans le marc de café et quelque chose comme ça, c’est la Chouafa. Mais il y a un autre type de voyante, c’est la Talaâ qui vient du mot Talaâ qui veut dire monter et elle, elle fait monter les esprits. C’est pour cela qu’on l’appelle la Talaâ. Celle-ci est dans l’état de transe, médiumnique car c’est un médium celle-là, ce n’est pas comme l’autre, le médium met sa bouche, son corps à la disposition d’un esprit ami d’elle, - ce n’est pas un tourmenteur-, avec qui elle s’est réconciliée, avec qui elle travaille pour décrire, diagnostiquer une maladie et indiquer ce avec quoi il faut la traiter. La Talaâ, non seulement n’est pas attachée aux Gnaouas, mais peut faire appel aux Gnaouas comme à des assistants. Une chose importante chez elle, qui me semble fondamentale et ressemble au Ndepp, c’est l’existence d’une table, la mida. Une table qui n’est pas une table de travail, c’est comme un petit guéridon qu’elle a dans la pièce où elle officie, dans sa pièce secrète. Sur cette table, elle met chaque semaine des aliments. Elle alimente son ou ses esprits possesseurs et collaborateurs. C’est elle qui est au centre de la thérapie et c’est cette thérapie qui est africaine assistée par les Gnaouas dont leurs rôles sont d’être des assistants. Ils ne sont pas des thérapeutes, contrairement à ce que l’on raconte quelquefois dans la presse, etc. C’est comme si on compare, dans l’église catholique, le prêtre et l’organiste qui tient l’orgue. Ce n’est pas l’organiste qui est au centre du rituel, de la messe, c’est le prêtre - et l’organiste est son assistant. Voilà ce qu’on peut dire pour recentrer la question des Gnaouas, leur collaboration à ce qu’on appelle une thérapie.

Benyounès : Tout ce que tu viens de nous dire, est-ce qu’on pourrait appeler cela du savoir, c’est du savoir recueilli sur le terrain. Au départ, ce sont des données sur le terrain que tu as observées.

G. Lapassade : Oui, la mida, la mida, je l’ai vue une fois. Parce que c’est considéré comme quelque chose que l’on ne doit pas voir. Que l’étranger, même un Marocain, l’étranger à la maison ne doit pas voir. Elle est gardée dans une pièce particulière par la Talaâ et cela ressemble à l’autel du Rab dont j’ai parlé tout à l’heure qui a été construit du côté de Dakar, dans la banlieue de Dakar à la fin des cérémonies du Ndepp.

Benyounès : Tu as commencé à nous parler du festival de Dakar, au Sénégal, ensuite de la Tunisie où tu as commencé à t’intéresser à ces groupes. Concrètement, tu voulais savoir ce qui se passait. Par la suite, tu as pris l’habitude de partir au Maroc chaque année. Et c’est là où tu voulais approfondir ton travail d’observation.

G. Lapassade : Là, j’étais moins efficace, moins rapide, moins profond, je dirais au Maroc qu’au Sénégal, c’est curieux. J’ai passé beaucoup de temps dans les pays du Maghreb, en Tunisie et surtout au Maroc, mais je n’ai eu accès même pas à une thérapie. Je n’ai pas eu accès à une thérapie ; ce qu’on appelle une thérapie par une voyante, par une thérapeute. Je n’y ai pas eu accès du tout. Je n’ai vu que les Gnaouas dans leur rôle autonomisé de musiciens. Ce rôle est plus connu en Occident et donne lieu, maintenant, à un festival des Gnaouas chaque année à Essaouira. Cela, oui, je l’ai vu des quantités de fois, mais, comme je te l’ai dit, et il faut bien le comprendre, ce rite qu’ils pratiquent, ils n’en sont pas les dirigeants, c’est la voyante qui les convoque pour un moment dans la séance thérapeutique où il y a autre chose que l’intervention des Gnaouas. Mais ces Gnaouas se sont autonomisés avec la médiatisation, ma propre action de propagandiste des Gnaouas depuis 1969 et maintenant, ils sont connus par le festival international ou mondial des Gnaouas qui se tient chaque année à Essaouira. Ils sont devenus des vedettes de la mondialisation, ils jouent avec les musiciens de jazz, etc. Il faut bien voir que ce n’était pas cela, au début, que probablement, ils intervenaient essentiellement comme des assistants d’un ou d’une thérapeute dont ce n’était pas le seul acte thérapeutique, loin de là, puisque le sacrifice était davantage thérapeutique. Mais j’ai vu le sacrifice par les Gnaouas, j’y ai assisté. C’était un Gnaoui, qui était connu à Essaouira, qui se promenait avec sa djellaba rouge sang. J’insiste là-dessus, parce qu’il faut redresser la situation et la conviction quasi générale sur cet aspect-là. Peut-être que, Rihda Ennafaa, pour la Tunisie et Chlyeh, dans leurs deux ouvrages, ils n’ont pas été assez clairs sur ce que je viens de dire, ce partage des rôles et des responsabilités dans des séquences thérapeutiques.

Augustin : Est-ce que c’est suite à cela que tu as construit le concept de la dissociation ?

G.Lapassade : Non, je n’ai pas construit seulement ce concept suite aux Gnaouas ; c’est extérieur à cela, je ne sais pas comment je suis venu à cela. Je n’ai pas construit ce concept, il vient de Pierre Janet, si tu veux, très rapidement, il y a deux étapes dans la dissociation, il y a la définition de la dissociation comme pathologique et ça c’est Janet et ses successeurs, mais Janet ne faisait que constituer l’aboutissement, comme je l’ai montré dans mon livre La découverte de la dissociation. Janet n’était que l’aboutissement d’un siècle entier de travaux, depuis Mesmer qui doit être à l’origine de l’hypnose, si vous voulez, qui faisait des cures à Vienne et à Paris, par la transe autour d’un baquet qui contenait de l’eau qu’il disait magnétisée. Il y avait des gens autour, c’est un peu plus que cette table ; il y avait des gens autour qui plongeaient un bout de ferraille dans l’eau magnétisée par Mesmer, disait-il, un peu comme de l’eau bénite et c’était ça sa thérapie. Ensuite, il y avait son disciple, le Marquis de Puysegur qui avait remplacé Satan par des « passes », il y avait de ça aussi ; il y avait des cordes qui cachaient un arbre magnétisé, etc. Il y avait aussi le baquet de Mesmer et il avait tout un rituel de mise en hypnose de ses clients. Et, puis, il y a eu Janet. Janet connaît très bien ce que je viens d’évoquer et moi-même, j’ai évoqué les différentes séquences de la trace du passage de Mesmer à Janet dans mon livre sur la découverte de la dissociation. Janet n’a pas parlé de dissociation, il a parlé de désagrégation mentale, il pensait que les hystériques souffraient de désagrégation, de l’affaiblissement de la personnalité et de leurs capacités énergétiques, ce qui permettait à la maladie de s’installer par déficit ; alors que c’est faux, ce n’est pas par déficit, c’est par le conflit que vient l’hystérie. Mais, dans la dissociation, il y a eu ensuite un spécialiste de l’hypnose, un experimentaliste qui s’appelle Ernest Hilgard dont les ouvrages sont introuvables même ici en France, Bernheim qui disait dans son ouvrage, où il soutient qu’à côté de la dissociation pathologique, il peut y avoir une dissociation normale. Ouvrage que j’ai repris moi-même ensuite pour parler de la dissociation normale qui semble avoir des ressources .

Alain Monlouis : Parles nous de transe au Brésil.

G. Lapassade : Je suis allé au Brésil, quand j’en ai eu l’occasion, pour des voyages – mission universitaire – en été 1970, je crois, mais ce n’est pas pour autant que j’ai laissé le Maghreb. J’ai continué à aller au Maghreb, c’était facile, c’était moins cher, beaucoup moins cher d’aller au Maroc. J’avais pris mes habitudes marocaines à Essaouira essentiellement. Tandis qu’au Brésil, j’y suis allé deux fois, une fois en 1970, dans le cadre d’une rencontre internationale de pédagogie qui était financée par l’entreprise Olivetti, dans sa filiale au Brésil qui faisait des machines à écrire. Alors, ils nous ont invités à plusieurs, il y avait Michel Lobrot, il y avait pas mal de psychosociologues français et de pédagogues français. Puis en 1972, j’y suis allé pour remplacer René Lourau qui était invité, mais qui n’y est pas allé, je ne sais pas pourquoi. Voilà, comment j’ai fait ces deux grands voyages au Brésil. Mais, c’est durant le second, où j’ai pu voir de près ce que l’on appelle populairement la macumba, mais que l’on appelle officiellement la Lumbanda. J’avais assisté à l’éducation des médiums, excusez-moi, je vais parler par association, par transduction. Oui, j’ai assisté à la formation des médiums parce que j’étais avec un jeune étudiant dont le père était en plein dans le mouvement de la Macumba et en particulier devait assurer une formation des médiums. Il faut savoir qu’il y avait une grande influence, non pas de thérapeutes comme Janet, mais de l’instituteur qui s’appelait Rivail qui s’est donné un pseudonyme, Alain Cardec qui a fondé l’église cardéciste de Cardec qui est présente un peu partout, même ici en France, mais plus souvent présente au Brésil. Où elle s’est mélangée, la pratique cardéciste. Le genre d’hypnose s’est combiné avec les rites africains. De façon très spectaculaire, démonstrative, ce mariage du cardécisme et de l’Afrique, de l’Africanisme, si on peut dire, a été particulièrement vif. A Haïti, où les responsables du vaudou, le rite du vaudou, le rite de possession aussi mais non thérapeutique sont appelés parfois Maïkiseur qui est une déformation du mot magnétiseur de Mesmer. Mesmer appelait ça magnétisme animal et on appelait au 19ème siècle, les gens qui pratiquaient en fait l’hypnose, on les appelait les magnétiseurs. Cela a été importé en Haïti, grâce à un des frères de la famille Puységur dont l’aîné était devenu célèbre parce qu’il avait systématisé l’hypnose qui était implicite chez Mesmer, son autre frère, officier de Marine a apporté le Mesmérisme en Haïti où il s’est combiné avec le vaudou.
Il faut que je sorte des choses là, la nuit, c’est que ma pensée va très vite. Donc ce mécanisme psychologique, je vois où je veux arriver, en voyant où je veux arriver, j’y arrive, mais en laissant de côté, en traversant, en oubliant les chaînons qui me font arriver là où j’arrive.

Augustin Mutuale : Je reviens un peu sur la dissociation, tu as parlé de Janet, tu te situes où par rapport à Janet, à Hilgard et à l’Afrique dans ce domaine de la dissociation ? Ta pensée se porte dans quelle direction ?

G. Lapassade : Janet définit la dissociation pathologique et c’est Hilgard qui l’a normalisée. Ma pensée est celle de Hilgard le plus souvent, c’est-à-dire, comme normalité et comme ressources. Pour Hilgard, c’est une ressource ; ce qu’il illustre très simplement en disant, le fait qu’un automobiliste peut, à la fois, conduire et surveiller la route et regarder devant lui sinon il risque de lui arriver un accident. Il doit surveiller son trajet, ce qui se passe devant lui, derrière ou à côté et en même temps, il peut discuter, parler avec son voisin, son passager. C’est là la dissociation toute simple. Il en a deux d’interventions, de contrôles. C’est la route et le discours et la présence de son voisin, de son passager, c’est une dissociation simple et il y en a tout le temps dans la vie. C’est la même chose, pour un enseignant, il peut parler devant les gens et rêver à ce qu’il va faire aux prochaines vacances. Il peut aussi surveiller et regarder son public, c’est une autre chose que d’élaborer son discours. Il y a tout le travail d’élaboration pour te répondre, il faut construire quelque chose, construire un discours et d’autre part, je peux être attentif à ce qui se passe autour de moi, à droite et à gauche, à la caméra qui est en face de moi, etc. Donc, c’est une dissociation, mais normale.

Augustin : Pourquoi, alors, la thérapie, parce que si tu restes sur la dissociation, sur la normalité de la dissociation ?

G. Lapassade : Parce que je pense à ce que j’ai écrit dans un livre qui vient de paraître, il y a un mois qui s’intitule Le mythe de l’identité. Il y a un chapitre anthropologique dedans. Dans ce chapitre, je prends deux figures essentielles de la religion, disons, certaines religions traditionnelles, qui sont le Chaman et le Médium ou la médium et d’ailleurs, peut-être, je ne le dis pas assez. Il est caractéristique que les deux ont en commun, leur formation, leur vocation. La forme que prend leur formation et leur carrière et leur vocation réunies ; dans les deux cas, très souvent, mais pas toujours, il y a un trouble à l’adolescence, une dissociation adolescente. Ils font des fugues ou elles font des fugues. Et les fugues si l’on regarde le manuel mondial, j’ai oublié son nom, de la pathologie, de la psychiatrie, dans sa 4ème édition, il y a un chapitre sur la dissociation où parmi les aspects de la dissociation pathologique, mais là ce n’est pas pathologique, en milieu de psychiatrie, il y a la fugue, la fugue dissociative qui est bien connue quand même, comme pathologie. Il se trouve que, aussi bien que les Chamans et les médiums, souvent, au départ de leur vocation, il y a des fugues. Ils se réfugient dans la forêt ; ils sortent de chez eux. On voit même cela au Maroc ou en Algérie, dans les vocations de certaines Talaâs, de certains guérisseurs, comme on les appelle des médiums. Il y a cette sorte de tradition d’une fugue adolescente, au départ. C’est une dissociation qui va se retourner, se transformer en dissociation normale. On n’élimine pas la dissociation comme le voulait Janet. La thérapie occidentale viserait à l’élimination de la dissociation, tandis que là, on s’arrange avec, on se réconcilie en la transformant. C’est spectaculaire dans ce que j’ai pu en vivre chez les chamans et les médiums et même, chez le client de base, d’une intervention qu’on appellera thérapeutique, en Afrique, la dissociation n’est pas éliminée comme un trouble définitivement pathologique dont il faut se libérer… en reconstruisant les identités, mais elle est, quelque part dans un coin de la personnalité. Elle est constitutive de la personnalité et même du métier quand il s’agit d’en faire un métier. La Talaâ, les spécialistes de la dissociation, les gestionnaires de la dissociation, à but thérapeutique restent dissociés. Donc, on peut dire, qu’en Afrique, à la différence de l’Europe, il y a aménagement de la dissociation, il n’y a pas eu tentative d’élimination. (…)

G. Lapassade : Est-ce que j’ai répondu à la question ?

Augustin : Oui, oui !

G. Lapassade : C’est un trait de l’Afrique, de la psychologie africaine, des Africains, cette disponibilité de la dissociation, peut-être que les Africains sont moins unifiés que les Européens, et qui sont plus porteurs d’une dissociation, d’une dissociation constitutive de leur identité.

Laurent : Est-ce qu’il existe une dissociation culturelle ?

G. Lapassade : Qu’est-ce que tu entends par dissociation culturelle ?

Alain : Par exemple, si je prends le cas des Antilles sur lequel je travaille un tout petit peu. Aux Antilles, on a plusieurs oppositions que l’on peut retrouver chez les individus. On a des oppositions qui sont liées à des faits historiques, une opposition Matriarcat-Patriarcat. Les systèmes familiaux vis-à-vis des individus qui étaient esclaves, qui étaient souvent issus du système matriarcat, qui ont été mis en esclavage par des gens qui sont souvent issus du système patriarcal. Ces gens-là se sont retrouvés sur une terre où ils doivent produire des biens et tout cela. Il y a une autre dissociation en leur langue, et leur langue se retrouve en dissociation avec une autre langue.

G. Lapassade : J’ai du mal à te suivre, je ne comprends pas très bien !

Alain : Je dis, si je prends le cas des Antilles…

G. Lapassade : Là, où il y a le vaudou, qui est un rite dissociatif, par éclair puisqu’il y a possession rituelle.

Alain : Avant de parler du vaudou, je veux parler de l’opposition entre ce qui est du patriarcat et du matriarcat , entre des systèmes familiaux qui créent de la dissociation chez les individus.

G. Lapassade : Oui, parce que les individus vivent à la fois dans le matriarcat et dans le patriarcat.

Alain : Parce qu’en fait c’est ce qui se passe, les Européens sont du système patriarcal, eux, ils ont épousé ce patriarcat de fait, alors que ces gens-là venaient d’un système matriarcal.

G. Lapassade : Donc, les Haïtiens, ils ont les deux.

Alain : Ils ont les deux, et quelque part, ils n’arrivent pas à se situer quand on a les deux.

G. Lapassade : Oui, les Européens ont imposé une dissociation.

Alain : Ils ont imposé une dissociation.

G. Lapassade : Une dissociation, comme on dit ici pour les enfants d’immigrés. On leur impose une dissociation, puisqu’ils vivent dans leur famille une certaine tradition, une certaine culture et une façon de vivre que l’école rejette. Que la société ambiante rejette, donc, il y a ici, une création, chez les enfants d’immigrés et chez les immigrés eux-mêmes, d’une dissociation.

Alain : Cela crée une perte de repères et cela peut entraîner la folie.

Augustin : Dans les écrits, je voudrais savoir si la dissociation est une ressource.

G. Lapassade : Pour Hilgard.

Augustin : Je veux savoir pour toi, Georges

G. Lapassade : Oui, je vais te donner un exemple très simple. Pour pouvoir te répondre, il me faut à la fois me brancher sur ta question, me centrer sur ta question, créer avec toi une paire, c’est-à-dire un court-circuit, mais je n’abandonne pas pour autant les autres. Même, s’il y a un court-circuit avec toi, une relation duelle qui se construit avec toi, il n’en existe pas moins une relation avec les autres et c’est une dissociation.

Augustin : D’accord, là, c’est la réalité banale et quotidienne, mais il y a une crise de la dissociation. A un moment, tu parles qu’une personne fugue. Moi, je travaille avec des adolescents, il y a des fugues.

G. Lapassade : Parce qu’ils sont dissociés.

Augustin : Dissociés, cette dissociation, il y a un moment donné où elle doit passer par une phase de normalisation ; donc il y a une thérapie.

G. Lapassade : Alors, comment on fait avec les adolescents ? Il y a une thérapie de la dissociation, mais ce n’est pas de la thérapie africaine

Augustin : Comment on fait ? Ce n’est pas de la thérapie africaine. Moi je te pose la question : Quel est ton regard par rapport à la thérapie de la dissociation ? Prenant l’exemple de ce que faisait Tobie Nathan avec l’ethnopsychiatrie ici, est ce que toi tu as un regard par rapport à une thérapie de la dissociation ?

G. Lapassade : Moi, je ne suis pas un praticien de thérapie, d’aucune thérapie. Est ce qu’il faisait de la thérapie de dissociation Tobie Nathan ? J’ai très bien connu Tobie Nathan, j’ai même publié dans sa revue un article sur la dissociation. Je pense qu’il n’utilisait pas le mot dissociation. Je n’ai pas suivi tout son enseignement ; parce que pour lui, c’est un concept occidental correspondant à des réalités seulement occidentales et qu’il préfère employer le langage indigène comme on dit, quand il s’occupait d’autre culture. Il n’était pas porté à généraliser la notion de dissociation, même pour les enfants d’immigrés. Il était beaucoup plus culturaliste. Tu as travaillé avec Nathan ?

Augustin : J’ai travaillé… La mère de mon fils était psychiatre avec Nathan. Mais, j’ai travaillé parce que je suivais…et puis il y avait une personne qui a publié beaucoup avec Lucien qui était professeur qui enseigne encore là, avec qui, j’ai eu à suivre un peu ses travaux. C’est ce qui m’avait touché, ce qui me pose comme question, si je peux t’interroger : comment et où dans cette tranche de la dissociation, mets-tu la possession ?

G. Lapassade : Mais la possession, c’est la forme. C’est ce que va dire René Schérer, d’ailleurs, avec qui, que j’ai pris comme l’un des collaborateurs, l’un des auteurs de mon livre collectif que j’ai dirigé, qui s’intitule Regards sur la dissociation adolescente. Il disait : « Il y a sept regards, il y a sept cas de dissociation dans le cadre de la possession. C’était un petit landais, qui était dans ma région, qui a été possédé du démon. C’était un Catholique et qui a été exorcisé par les moines, par des religieux d’une abbaye dont j’ai visité l’entrée au nord du Béarn dans les Landes. J’ai trouvé ce cas dans les bas-fonds de la bibliothèque municipale de Pau où il dormait ; je l’ai sorti et je l’ai publié. Ainsi, j’ai pu publié le cas d’enfant de Puységur qui était insupportable pour sa famille et pour tout le monde et que Puységur avait soigné par le Mesmérisme qui était une sorte d’hypnose. Et il a publié le journal. C’est un livre entier, même deux livres, c’est le journal de cette thérapie.
Alors, Schérer avait écrit la conclusion de ce livre et il me disait un jour : finalement le cas le plus limpide de ce qu’on appelle la dissociation, c’est la possession du petit landais parce que là au moins on voit la dissociation. Cela veut dire quoi dans ce cas-là : c’est la possession, c’est la définition religieuse d’une dissociation, de la dissociation. Mais on ne l’appelle pas dissociation dans le langage religieux, on l’appelle possession. Or, cela veut dire quoi la possession, c’est-à-dire que la personne vit comme s’il avait le diable dans la peau. Son identité est dissociée, une part d’elle reste à peu près normale et l’autre part, la foi est devenue le diable, finalement, qui la persécute. Donc, la possession est un cas limpide de la dissociation. La dissociation est appellation laïque de la possession, si l’on peut dire. Dans les œuvres de Janet, il y a un cas très, très riche que j’ai souvent cité, qui est le cas d’un psychiatre qui a une possession lucide parce qu’il est adoptif de possession et lucide, somnambulique et lucide. La possession somnambulique, c’est quelqu’un qu’on réveille de sa crise de possession et qui a oublié ce qui s’est passé tandis que celui qui est lucide peut parler et peut commenter sa possession. Je ne sais pas pourquoi je dis tout cela.

Benyounès Bellagnech : C’est pour distinguer entre la possession et la dissociation

G. Lapassade : La possession est la définition théologique de la dissociation ; le possédé est un dissocié en fait, il est deux êtres en lui-même ; j’ai deux âmes à moi…

Benyounès : En arabe, on dit qu’il est habité (Meskoun)

G. Lapassade : Meskoun, habité, oui, exactement, on peut partir de meskoun pour faire ce discours et c’est plus facile de le faire en arabe qu’en français, qu’en langue occidentale parce que cela est plus présent dans la culture au moins maghrébine, peut-être dans toute la culture Arabe.

Benyounès : On n’ose pas le dire, personne n’ose le dire ; c’est l’équivalent de l’onthologie occidentale. Dans le vécu, le Meskoun, les Djounouns, quand le Meskoun se réveille, c’est un peu proche de l’hystérie, mais cela n’a rien à voir, c’est quelque chose qui vit, cela fait partie de leur existence, c’est pourquoi je dis que c’est de l’onthologie chez eux. C’est de l’existence, c’est du vécu. Il vit avec, il cohabite avec, il crée des rituels, mais pas, pour les soigner, c’est pour les apaiser, mais sans jamais dire que cela ne sert à rien d’être habité. Non habité, c’est habité. La conclusion de Georges, dans son livre La découverte de la dissociation, c’était ça, c’est cette différence entre le traitement réel du vécu des possédés, des Meskounins (Pluriel de Meskoun) leur vécu reste normal, il rentre dans la normalité. Ils ne font pas partie de ceux qu’on doit soigner.

G. Lapassade : Qui ça ?

Benyounès : Les Meskounins, ceux qui ont les Djounouns à l’intérieur d’eux-mêmes.

G. Lapassade : On ne les soigne pas !

Benyounès : On ne les soigne pas, ils vivent comme les autres.

Aziz : Mais il n’empêche, qu’on dit toujours Meskoun.

Benyounès : Oui, on dit toujours Meskoun, c’est pour l’habitation ; c’est comme ici, on retrouve cela en Occident (…). On dit, par exemple, dans une maison où il y a beaucoup de morts, on dit qu’elle est habitée, elle est habitée par les esprits, hantée. Cela aussi existe au niveau de l’espace, des lieux géographiques.
Alain : Ce qui explique que dès qu’on rentre dans cette maison, on entend des voix, des bruits. On dit qu’elle est hantée.

G. Lapassade : C’est parce qu’il y avaient des fillettes qui entendaient des sons et bruits dans une maison américaine que l’on a commencé à s’intéresser au médiumnisme et à des trucs comme ça. Cela a joué un rôle très important, cette histoire de maison hantée. C’est tout au début des sciences occultes américaines et occidentales. Mais, c’est vrai dans la culture maghrébine, ces affaires de dissociation, on ne les appelle pas dissociation. En fait, c’est simple, ce sont des lieux communs, ce sont du quotidien, du moins dans les croyances populaires.

Benyounès Bellagnech : Cela ne relève pas de la psychopathologie.

G. Lapassade : On fait appel à des guérisseurs, à des exorcises.

Benyounès : C’est pour les cas extrêmes, parce que si tu prends tous les gens qui sont habités ; moi, j’en ai connu dans ma famille, de temps en temps, des gens qui tombent, ils commencent à sortir leur langue, on peut dire que c’est un état hystérique. C’est très expressif. On ne pense jamais à les amener chez le médecin, ni chez le voyant, la voyante, ni chez le marabout, ni chez quelqu’un d’autre. On ne pense pas à faire ça. On redoute, parce que de temps en temps, quelqu’un conduit un tracteur ; on craignait que cela lui arrive au moment où il conduit le tracteur. On a peur pour lui, on a peur pour sa vie, cela n’est jamais arrivé, cela ne pose pas de problème. C’est un exemple parmi d’autres.

G. Lapassade : Et, il était possédé !

Benyounès : Oui, oui, il était possédé, j’en ai connu deux autres, une fille et un garçon, c’étaient des amis à l’université. Comme par hasard, pour la fille, cela ne lui arrive jamais à l’extérieur, cela ne lui arrive que quand il y a quelqu’un. Une fois, elle était chez moi je ne savais pas, cela lui est arrivé, elle était étendue et quelqu’un qui la connaissait, m’avait dit que cela lui arrive, elle est comme ça. Puis, il y avait un autre copain, lui, cela pouvait lui arriver à l’extérieur. De temps en temps, quand tu le vois avec des bleus sur les yeux, on dirait en le voyant qu’il a été tabassé à mort, c’est indescriptible. Toutefois, ni lui, ni sa famille, ne reconnaissent l’état pathologique de cette expression, de ce symptôme de cette crise où le corps est malmené.

G. Lapassade : On ne fait pas appel à des …

Benyounès : Cela non, dans ces cas dont je t’ai parlé, non ; peut-être dans d’autres. Cela, c’est ce que j’ai vécu, ce que j’ai vu ; des gens que je connais.

G. Lapassade : Ces choses, dont je te parle, sont beaucoup plus présentes et l’on pourrait se demander pourquoi, elles sont plus familières chez vous qu’ici. C’est curieux, il y a une familiarité avec la dissociation, une sorte d’arrangement qui s’opère, sauf qu’il y a quand même des rituels thérapeutiques qui sont des thérapies de dissociation par exemple le Ndepp africain, on ne cherche pas à éliminer, à l’éradiquer, à l’enlever, mais à s’accorder avec, à l’aménager et c’est ce que l’on appelle l’adorcisme. Il y a cette table que l’on construit au cours du rituel du Ndepp que j’ai vu et auquel j’ai assisté à Dakar. Sur cette table, l’ex-malade guéri est tenu chaque semaine, pendant toute sa vie, d’apporter du lait et autres ; parce que, maintenant, le rab est là. Il est dans l’autel, c’est un aménagement de la dissociation. Cette table, qui fait autel, correspond, je l’ai dit tout à l’heure, chez les Gnaouas, chez les thérapeutes maghrébins à ce que l’on appelle la Mida. La Mida, c’est la table. Une table autel, une table religieuse, à fonction religieuse, donc c’est l’aménagement de la dissociation. La dissociation passe par la table et la personne guérie, libérée va faire des hommages chaque semaine, toute sa vie sur cette table. On ne cherche pas à éliminer la dissociation, mais à la fixer dehors. Et de faire en sorte que la personne finisse par faire un culte domestique.

Augustin Mutuale : Et, cette position est que, selon toi, c’est lié au fait qu’en Afrique, on se dit que la dissociation est une réalité qui ne peut s’illuminer. Donc, on doit cohabiter avec ou plutôt ce qui pourrait être un regard positif de la dissociation, en disant que c’est une ressource que l’on doit gérer, sinon elle peut partir dans tous les sens.

G. Lapassade : Une ressource, excuses-moi je t’ai coupé, une ressource, cela veut dire que lorsqu’on s’en sert, elle devient utile. Mais, je dis que c’est une ressource pour les professionnels de la dissociation et pas pour tout le monde.

Benyounès : Toi, tu as appelé cela l’institutionnalisation dans le livre.

G. Lapassade : Oui, c’est une institutionnalisation

Benyounès : L’institutionnalisation, cela veut dire les possédés dont il parle …Ils deviennent comme des marabouts…Ils deviennent les plus importants du groupe dans lequel ils vivent et ils ne sont pas touchés par ce symptôme. Cela devient, son institutionnalisation, c’est une sorte de vénération de cet état de quelqu’un qui est habité par des esprits qui viennent de l’extérieur. C’est ça son institutionnalisation, il devient un repère, il peut devenir guérisseur. Il est vénéré, il a plus d’importance que dans le reste du groupe dans lequel il vit. Par rapport à cela, Georges, j’ai une question peut-être…

G. Lapassade : On peut parler de Mejdoub aussi.

Benyounès : Oui, on peut parler de Mejdoub aussi, celui qu’on a fait venir ici, celui qu’on a connu ici, c’est un vrai Mejdoub ! On sent qu’il nous dérange

G. Lapassade : C’est toi et moi qui l’avons fabriqué comme Mejdoub

Benyounès : Oui, tout à fait, c’est vrai, je lui ai dit. Lui, il écrit et cela est la nouveauté, parce que normalement, il (le Mejdoub) n’écrit pas, il parle dans la rue, il parle quand il a envie de parler, il fait ce qu’il a envie de faire et il s’en fout du contexte. Pour lui, il n’y a pas de contexte, il n’y a pas de situation. Mejdoub, c’est ça. Quand il a quelque chose à dire, il le dit dans la rue, soit les gens se rassemblent autour de lui ; cela ne l’empêche pas d’aller dans son délire. Le Mejdoub, il a un art de s’exprimer et cet art, il l’utilise à volonté. Récemment, je lui ai dit que je suis prêt à défendre jusqu’au bout, ce qu’il écrit. Il a une manière d’écrire qui n’existe pas, cela veut dire qu’il crée des choses qu’on ne voit pas par ailleurs. C’est un Mejdoud. Sa nouveauté est de transformer l’état de Mejdoub, l’état de parole, comme tu disais tout à l’heure en Afrique, c’est la parole. Lui, il vit en tant que Mejdoub ici en Occident. Il est dissocié et sa dissociation, il la transforme en écrit et ça c’est génial. La question que je voulais te poser, c’est venu de là…

G. Lapassade : Moi, je commence à me sentir un peu dissocié par cet exercice-là. Depuis combien de temps vous m’interviewez ? Presque une heure.

Benyounès : Du point de vue méthodologique, c’est cette discussion qui m’a amené à poser cette question. Est-ce que l’on ne pourrait pas dire, toi en tant qu’ethnologue, - parce que ce que tu rapportes, c’est en tant qu’ethnologue, sur le terrain que tu as observé-, est-ce que l’on ne pourrait pas dire que l’ethnologue observe les groupes connus, c’est-à-dire institués quelque part. Est ce qu’il n’est pas enfermé dans l’observation des groupes connus.

G. Lapassade : Qu’est ce que cela veut dire ? Je ne comprends pas.

Benyounès : Cela veut dire que toi, ton expérience au Maroc, c’était Essaouira ; le lieu où tu allais pour observer les Gnaouas, pour travailler sur eux.

G. Lapassade : J’allais à Essaouira parce que je me suis habitué à aimer Essaouira, c’est une ville où les Gnaouas sont privilégiés. D’ailleurs, cela rejoint un peu le thème de l’Afrique, ce qui est très curieux, d’ailleurs, dans le Maghreb et même au Maroc, les Gnaouas sont dans un coin. On peut les voir, je pense à Safi par exemple, on peut les voir faire le Halka, le halka c’est le cercle. On peut les voir faire le Halka, à la fin du jour, à la tombée de la nuit, pour ramasser un peu d’argent, pour faire la quête et ils font cette sorte de spectacle en rond ; les gens sont debout, autour de lui, devant lui, devant eux. Ils font, comme on le voit, la jemâa, ils dansent, ils jouent avec leurs castagnettes de fer ; d’autres le goumbri, qui est une sorte de guitare africaine. On les connaît plus dans ce rôle là que dans les nuits rituelles avec dissociation, avec des états de possession. Des adeptes, des adeptes, ce ne sont pas seulement des malades dans ces soirées, ce sont des gens qui sont aptes à la dissociation, aptes à rentrer en transe et soi-disant à incarner les esprits. Et qu’un esprit, c’est une dissociation puisque le médium qui danse, qui est possédé comme on dit, à la fois, devient un esprit, mais garde son identité.
Gérard Althabe racontait qu’il avait beaucoup travaillé sur le Troumba de Madagascar et qu’un jour, un médium qui y assistait, s’était orienté vers lui et il l’avait agressé verbalement, en lui disant « fous le camp, qu’est ce que tu viens faire à nous regarder ici. Tu n’as pas de place ici, tu n’as pas à nous espionner ». Cela s’est passé pendant le rite et après quand le rite a pris fin, le même médium est allé s’excuser auprès d’Althabe. Donc, il savait ce qu’il était en train de faire en tant que médium rituellement possédé, mais il l’a avoué, si on peut dire, il l’a manifesté quand il s’est excusé auprès de lui. C’est-à-dire que même s’il était en état de possession, comme je le dis, il y avait un « observateur » de tolérance, un veilleur, comme dit Hilgard, il y avait un veilleur, un surveillant. Un sur-veillant est en soi un observateur caché. Hilgard, un observateur caché de l’état d’hypnose, de transe. Dans l’état de transe, il y a dissociation puisqu’il y a un veilleur qui n’est pas en transe. Cela se voit à la fin du livre, et dans beaucoup d’autres exemples, de Moreau de Tours, qui était un psychiatre, qui a publié un livre qui s’appelle Du haschich et de l’aliénation mentale, et qui, lui, consommait du haschich. Comme c’était à la mode vers 1850, il y avait Baudelaire qui participait à cela à l’Ile Saint Louis. Il y avait un club où les gens consommaient des drogues pour expérimenter cet état-là, des pratiques artificielles comme l’a écrit Baudelaire. Et Moreau de Tours, tout à la fin, disait, de son livre sur le haschich où il parle de sa consommation de haschich : « Je deviens apte à regarder mes délires ». Donc, il y avait une période où il ne délirait pas. Il se regardait délirer, il y a là une dissociation. D’ailleurs, c’est ce qui se passe dans les états psychédéliques, avec des gens qui consomment des substances, le cannabis par exemple.

Augustin : Donc là, il y a dissociation par le produit comme le chaman, comme…

G. Lapassade : Comme le kif, comme le haschich qui sont des produits psychédéliques, des drogues comme on dit régulièrement, ce sont des produits dissociatifs. Ils accentuent la dissociation.

Augustin : Quand on pense au guérisseur en Afrique noire, on te dit : prends tel ou tel produit et tu rentres dans un autre monde où tu vois les choses.

G. Lapassade : Oui, c’est ça, la dissociation. Une part de toi va ailleurs, comme la possession. Et, c’est curieux, on devait parler de l’Afrique et on parle de la dissociation, comme si c’était le même sujet. Ce matin, dans cet entretien, cela a tourné à la dissociation, c’est peut-être qu’en Afrique, elle est plus courante et plus banale. On ne fait pas attention. Elle est quotidienne, elle est mieux vécue. Elle est recherchée même quand il y a les drogues et des trucs comme ça. Elle est recherchée aussi chez nous, chez les toxicos. Alors, est-ce que l’on a parlé de l’Afrique ou de la dissociation ?

Augustin : On a parlé …de la dissociation africaine. C’est quand même important, on avait lu ce texte ; c’est tout de même de la dissociation.

G. Lapassade : Le texte de l’entretien ! Avec l’entretien dont vous m’avez parlé !

Augustin : Oui, là c’est du parlé, mais tu nous as donné en tant qu’ethnologue ton point de vue, ton regard sur la dissociation africaine, cette expérience de la dissociation. C’est peut-être pourquoi lorsque l’on fera un papier sur l’entretien, on te le redonnera à relire, pour voir si nous pouvons le compléter encore par d’autres questions de ton expérience avec l’Afrique. Tu peux toujours rajouter, tu verras s’il y a des choses sur lesquelles nous pouvons te questionner.

G. Lapassade : Par exemple le Ndepp avec l’autel du rab, la table, l’expérience que j’ai faite avec Rouch, c’est ce qu’on faisait et que j’ai rendu en 1966 à partir de Tunis. J’ai rencontré Jean Rouch, on était très amis. Il est mort assez récemment. J’ai été invité au festival. J’ai rencontré aussi Michel Leiris. J’ai amené Rouch à Leiris et j’ai amené Rouch dans la banlieue de Dakar, au grand Yoff où nous avons assisté ensemble à certains moments de la semaine entière que constitue le Ndepp.

Augustin : Il a fait un film là-dessus.

G. Lapassade : Oui, il a fait un film Les maîtres fous, film qui l’a rendu célèbre, qui est un rite de possession. Les médians, des gens, c’étaient des travailleurs immigrés au Ghana qui faisaient le rite dans lequel ils égorgeaient un chien. Ils mangeaient le chien et ils rentraient en transe. Ils imitaient, ils incarnaient dans ce rituel les autorités anglaises. Par exemple, pour symboliser la perruque des soldats de la Reine, ils se cassaient un œuf sur le crâne, ça dégoulinait.

Augustin : C’est un beau film, il y a eu un festival, je ne sais où ! Moi, j’ai suivi cela au cours d’un festival sur Jean Rouch…

Benyounès : Chaque année, il y a quelque chose sur Jean Rouch à Beaubourg.

Augustin : Je ne l’ai pas suivi à Beaubourg.

G. Lapassade : C’est un très beau film. On en finit là !


Cet entretien collectif a été réalisé par :
Amélie Grysole à la caméra
Augustin Mutuale, Benyounès Bellagnech,
Alain Monlouis, Laurent Kallyt.
Aziz Kharouni au son et à la retranscription
Revu et corrigé par Bernadette Bellagnech
Publié in Les IrrAIductibles n°11 « Etudes africaines »

domenica 22 marzo 2009

Fragments d'un maître di Salvatore Panu

Fragments d'un maître
Petit essai sur l'inachèvement d'une relation pédagogique


Tout le monde attendait Georges en Italie, à Bologne, le 27 avril 2008. Il aurait dû participer à une initiative que j'organise chaque année, le « Canto Sociale », entre le 25 avril (fête de la Libération du nazisme-fascisme) et le 1er mai (fête des ouvriers). Son intervention, que j'avais intitulée « autogestion et transe », aurait dû avoir lieu dans le Centre social autogéré, XM24, la dyalise, pour le jour de sa permanence était déjà bien organisée par Roberto Panzacchi et Rosario Picciolo était déjà prêt pour aller le chercher à l'aéroport. Denis Robert (musicien parisien) et Badia (peintre et sculptrice) étaient déjà arrivés pour mener le stage sur les chants de la Commune de Paris. Georges aurait même pu rencontrer Giovanna Marini, qui chantait les chants de la Résistance avec le « Mondine »[1] de Bentivoglio (petit village à côté de Bologne). Jusqu'à la veille Georges était enthousiaste à l'idée de revenir encore une fois en Italie, dans un centre social autogéré, mais ce matin-là, il n'a pas eu la force de se lever. Patrick Boumard, et l'équipe qui tournait le film sur Georges, sont donc arrivés sans lui.
Le 10 mai 2008, c'était son 84ème anniversaire.
Les 21 et 22 juin 2008, à Rome, il y a eu un colloque international d'Analyse Institutionnelle et Socioanalyse, organisé par la coopérative éditoriale, « Sensibili alle foglie ». Nous nous sommes retrouvés nombreux, Remi Hess, Parick Boumard, Kareen Illiade, Renato Curcio, Piero Fumarola, Leonardo Montecchi, Roberto de Angelis, Nicola Valentino et moi-même. Georges était le grand absent autour duquel s'écoulaient les discours.
J'ai pris ensuite l'avion avec les Français, pour participer, comme tous les ans, au Colloque international d'Analyse institutionnelle (8ème édition), les 24, 25, 26 juin 2008 à l'Université Saint-Denis Paris 8. Cette année, le thème était: « La place des femmes dans l'AI, le tournant biographique ». A sa manière typique, Georges avait toujours participé à tous les colloques d'Analyse Institutionnelle. Pour la première fois il ne parvenait pas à sortir de sa maison et à traverser la rue de la Liberté, la rue dans laquelle il habitait, au numéro 9, en face de l'Université qu'il avait contribué à fonder. Ces jours-là, je profitais de chaque occasion pour aller le visiter. Désormais il entrait et sortait de l'hôpital sans arrêt, au-delà des trois fois par semaine, auxquels il était habitué à cause de la dyalise, il était hospitalisé pour des périodes plus longues. Mais il ne voulait pas rester à l'hôpital, et après quelque temps il sortait. Mais il ne mangeait pas, il était tellement maigri … Zayan, son chien, n'aboyait quasiment plus. Il ne dormait que d'un œil, en permanence, dans cet état qui autrefois lui plaisait beaucoup. Un jour en effet il m'avait raconté qu'il aimait beaucoup cet état de « sommeil-éveillé », dans lequel on ne sait pas bien s'il l'on est en train de rêver ou s'il on est déjà conscient, une zone liminaire, de frontière, hautement créative, où l'on peut élaborer librement, presque gérer son propre vol, une zone qui pourrait être comme de transe.
Quand j’allais le visiter j'attendais qu'il se réveille, ou j'essayais de le réveiller. Comme Zayan me revoyait pour la première fois depuis longtemps, c'est lui qui s'en est occupé et, sans faire trop de fête comme il faisait normalement, il m'a conduit directement dans la chambre de Georges. Au lieu de sauter sur son lit comme il faisait d'habitude, avec son museau il cherchait à bouger le bras lourd, endormi, qui pendait du lit, le bras morcelé à cause de plusieurs années de dyalise : en effet Zayan essayait de me montrer combien il était difficile de réveiller Georges, et essayait de me raconter que la situation était certainement plus grave que d'habitude. C'était obscur dans sa chambre, et dehors il y avait une magnifique journée pleine de soleil, dans ce Paris du mois de juin.
J'ai ouvert les volets pour faire entrer la lumière et changer l'air. Georges a ouvert un peu les yeux. Je lui proposai de faire une promenade, disons deux pas dans la maison, de se lever au moins un moment. Il m'a dit oui, dans un acquiescement. Mais il ne bougeait pas. Je l'ai pris, avec tout son poids. D'abord assis sur le lit, puis je l'ai accroché sous son bras, j'essayais de l'aider à se mettre debout. Les jambes ne le supportaient plus. On a essayé de faire deux pas en tout et pour tout, et finalement il a parlé, il a dit non. Il avait quand même essayé. Après un petit temps, je lui demandai s'il voulait réessayer, et il m'a encore dit dans un acquiescement oui. Même procédure, même résultat. Puis encore une fois au lit.
Dans ces jours-là, Giusi Lumare était passée avec moi, elle qui attendait dehors pour ne pas le déranger, et Noemi Bermani, qui l'a salué depuis la porte, pour être discrète. Il y avait aussi une femme de ménage, une jeune noire, c'était une grande nouveauté, parce que Georges n'avait jamais voulu d'une femme de ménage, surtout une femme ! Peut-être aimait-il observer comment les étudiants qu'il hébergeait gratuitement contribuaient à la gestion collective de la maison. En effet, la maison en ce moment était plus propre, plus ordonnée que d'habitude. La femme m'a demandé si j'étais quelqu'un de la famille; je lui ai répondu « en quelque sorte, oui », mais non, je n'étais pas parent de lui. Elle m'a demandé si Georges avait de la parentèle. Je lui ai répondu qu'il n'avait pas de fils et que ses parents habitaient très loin. Elle était émerveillée, probablement parce que dans la coutume africaine les dynamiques familiales sont différentes, mais elle ne pouvait pas savoir combien était ample la communauté humaine et intellectuelle qui entourait Georges.
Je suis parti pour réaliser un stage de Musique pour fanfare non conventionnelle en Normandie, pendant trois jours. Quand je suis revenu à Paris, je suis passé rue de la Liberté, avant de repartir pour l'Italie. J'ai salué Georges, en lui disant qu'on aurait pu se revoir à la fin du mois, parce que vers la fin de juillet je serais remonté en France. Les opérateurs de la dyalise sont arrivés, ils l'ont vêtu, l'ont soulevé, l'ont mis sur une chaise et l'ont amené en descendant l'escalier étroit et, pendant qu'il grommelait continuellement, en disant « foutez-moi la paix ! » ils l'ont introduit dans l'ambulance. Je les ai un peu aidés, ils étaient habitués à ce type de travail, experts et déterminés, sûrs de leur action, ils nous ont permis de nous saluer encore, puis j'ai fermé la porte de l'ambulance et je suis resté là, en le voyant partir. Même Zayan n'aboyait plus.
Le 30 juillet 2008, en fin de matinée, j'ai reçu un appel téléphonique depuis le portable de Reski Assous, le jeune étudiant algérien qu'il hébergeait depuis des années au rez-de-chaussée : « Salvatore, Georges est mort! ».
Le 3 août, je suis arrivé dans l'Abbaye d'Auberive, en Haute-Marne, pour coordonner un stage avec à peu près 60 musiciens, qui provenaient de Normandie, de Paris, de Bordeaux et d'Italie. J'avais envie que tous les participants amènent leur contribution musicale, tous les matins on travaillait sur les techniques et la pratique de l'improvisation collective et tous les après-midis on tentait d'articuler une composition collective.
Le 6 août Denis Robert (responsable de l'organisation de l'initiative) et Giusi Lumare m'ont accompagné à Paris pour la crémation de Georges. J'ai expliqué à tout le monde pourquoi je devais aller à Paris, et j'ai donc laissé 60 musiciens dans l'autogestion collective la plus totale pendant toute la journée : en effet, jusqu'au bout Georges a encore une fois déclenché un processus d'autogestion collective.
On est partis très tôt pour arriver à l'heure à la crémation à 11 heures à Villetaneuse (Joncherolle), pas loin de l'Université de Saint-Denis. Là on a rencontré aussi Roberto Panzacchi avec Sabina et leurs deux enfants qui venaient d’Italie. J'avais avec moi deux tournesols que j'avais coupés sur la route, dans un champ, en Haute-Marne pendant le voyage et j'avais aussi l'accordéon. A la fin de la cérémonie, quand on voulait bureaucratiquement nous mettre dehors, parce que le temps était écoulé, ils ont fait disparaître le cercueil en l'emmenant ailleurs pour la crémation, moi et Denis nous nous sommes levés, on a pris la place du cercueil, qui n'était plus là et on a chanté à deux voix, pour Georges et pour la centaine de personnes présente. On a chanté « Le temps des cerises », un chant de la Commune de Paris, qu'il me demandait toujours de jouer à l'accordéon et que lui-même aimait chanter. Ensuite un chant traditionnel de mon village de Sardaigne. Les enfants de Roberto, qui avait si souvent hébergé Georges à Bologne, voulaient voir la maison de cet espèce de grand-père qu'il était pour eux et ils voulaient aussi voir Zayan. J'ai pris avec moi les tournesols, pour ne pas les laisser à la voracité de la bureaucratie funèbre. On les amenés rue de la Liberté. J'ai laissé les tournesols dans la chambre à coucher vide de Georges et on est repartis immédiatement pour l'Abbaye d'Auberive.
Dans ces jours-là j'ai proposé à tout le groupe de musiciens de jouer une de mes compositions, dédiée à Georges, « Oru », qui signifie « la ligne de l'horizon dans la mer, que l'on voit depuis l'île de Sardaigne ». A la première exécution on était tous très émus, j'ai été submergé par les vagues sonores de cette mer qui s'ouvrait devant moi, et j'ai eu la sensation d'accompagner, un peu, Georges, dans sa transe.

La première fois que j'ai rencontré Georges, en Italie, à Bologne, c'était les 29 et 30 avril 1991. On avait organisé avec le Damsterdamned, collectif étudiant du DAMS[2], un séminaire intitulé « Rap-Ethnie-Transe ». On respirait encore l'air de la « Pantera », le mouvement étudiant de 1990. Georges avec Piero Fumarola tournaient dans les universités italiennes occupées avec un séminaire itinérant et nous, nous avions réussi à les intercepter … Lecce, Rome, enfin ils ont débarqué à Bologne.
La question centrale fut la tentative de connecter les expériences des mouvements des jeunes, de la « Pantera », du phénomène naissant en Europe du Rap, Raggamuffin, Hip-Hop et plus en général des sous-cultures ou contre-cultures, avec les cultures populaires de tradition orale, qui représentait une source d'appropriation d'identité, dans un contexte d'immigration massive, comme à Bologne, pour les jeunes du Salento (voir les groupes Sud Sound-System) ou Marseille en France (Massilia Sound-System). En outre, s'entrelaçait le discours sur la transe, en tant qu'élément traditionnel qui ré-émergeait par exemple dans le tarentisme.
On les a recontactés l'année suivante, les 6-8 mai 1992, lors d'une initiative intitulée « I linguaggi dell'irritazione », pour approfondir les discours laissés ouverts et pour élargir le débat sur les « langages irrités » typiques des contre-cultures de jeunes, mais aussi typiques aux formes d'expression créative, dans des situations d'enfermement comme les institutions totales. Donc les discours de l'art dans les asiles (en particulier on se référait surtout aux expériences dans la section autogérée de l'asile d'Imola, dirigée par Giorgio Antonucci) et le phénomène des états modifiés de conscience en situation de privation comme celle de la prison (on se référait surtout aux expériences en prison de Renato Curcio et Nicola Valentino). Noemi Bermani travaillait sur ce qui devait finalement devenir sa thèse de Laurea[3]
1992 fut une année très prolifique. Cela faisait environ un an qu'on allait jouer à la section autogérée de l'hôpital d'Imola et j'ai proposé de faire une irruption à l'asile Roncati de Bologne vu que j'habitais dans la même rue, presque en face et un dimanche matin on est parti de chez moi, avec une quinzaine de musiciens : là naquit officiellement la Banda Roncati, qui existe encore. La même année, Giusi Lumare, avec d'autres, avait fondé la librairie Grafton 9, qui fut un point de repère pour tout le Mouvement bolognais pendant des années et qui maintenant malheureusement n'existe plus. Toujours la même année, je fondis l'école populaire de musique Ivan Illich, qui existe encore, mais de laquelle, avec Noemi Bermani, Giusi Lumare, Chiara Stefani et d'autres encore, nous nous sommes dissociés, il y a à peu près trois ans, en raison de divergences paradigmatiques avec l'actuel Conseil d'Administration.
En 1996, je me suis inscrit à l'Université Paris 8 pour obtenir le DESS[4] en ethnométhodologie, grâce à l'aide concrète de Georges Lapassade, qui m'a aidé physiquement à me débrouiller dans le labyrinthe de la bureaucratie universitaire.
Dans l'été 1997 Georges et moi sommes invités en Sardaigne, pour faire une recherche sur le terrain, par l'association Carovana de Cagliari, qui organisait une initiative sur le thème « tradition et modernité ». Nous avons effectué une recherche-action à Oliena, dans le cœur de la Sardaigne, pendant la fête de la Madonna de Monserrato, du 31 août au 8 septembre 1997. Pendant cette recherche, un groupe local de jeunes tenores[5], invité à participer à une expérimentation musicale avec un groupe rock, refuse d'aller au-delà d'une telle expérience, au nom du respect des traditions culturelles. En réalité ces jeunes « conservateurs » d'une tradition culturelle locale qui rejettent expressément les cultures juvéniles métropolitaines, constituent paradoxalement une « bande de style », avec ses caractères spécifiques et ses vêtements; ils semblent vouloir affirmer une sorte d'identité ethnique et d'authenticité culturelle de laquelle ils seraient les garants; mais cette identité, qui s'enracine bien sûr dans le passé de cette région, est en même temps une construction identitaire.
Georges a donc débarqué en Sardaigne et à la suite de ses interventions l'intérêt pour son personnage intellectuel augmente. En 1998, une revue locale me demande d'écrire quelque chose sur lui; je réalise un entretien et je publie un article[6].
Successivement en novembre 2001 je publie un livre[7] dans lequel je raconte cette expérience de recherche avec Georges et plus en général j'aborde le problème de l'ethnicité, à partir de l'actualité sarde. La diffusion de l'accordéon diatonique, le phénomène des festivals de folklore et certaines dynamiques de fonctionnement des groupes folks offrent le prétexte pour étudier les dynamiques de transformation et de métissage des cultures populaires des traditions orales et pour affronter la question cruciale de la spectacularisation de la culture de la fête.
Le 7 mars 2002, Georges est à Bologne pour la présentation de mon livre dans le « Circolo Sardo », association locale des immigrés. Plus tard encore, en 2005, Georges me pousse à publier un article sur le même sujet dans la revue « Les Irraiductibles »[8]. C'est grâce à Georges Lapassade si j'ai réussi à continuer à aimer ma terre d'origine sans la mythiser.
En vivant ensemble dans la maison rue de la Liberté, j'avais connu Youssef Akourtam, un jeune d’Essaouira (Maroc), qui était lui-même hébergé chez Georges, et qui faisait une thèse sur les Gnawa. C'est grâce à cette relation quotidienne, ce contact et ces compétences qu'ils avaient, que j'ai pu organiser un séminaire itinérant avec un groupe de Gnawa en Italie. Les 26 janvier-12 février 2000, j'ai donc organisé, avec la collaboration et la participation de Georges et Youssef, « Lila, la Derdeba degli Gnawa di Essaouira (Maroc) di Omar Hayat », performance-colloque itinérant, avec une « famille » de sept gnawi, séminaire qui s'est déroulé entre les universités de Bologne, Lecce et Naples, en passant à travers de nombreux centres autogérés par des jeunes, pour finir dans une des plus connues des discothèques d'Italie, à Rimini, le Cocorico, dans lequel on a tenté un échange musical avec DJ Cirillo, lui aussi très connu, ce qui nous a permis de réaliser l'initiative entière en payant pratiquement le voyage aux Gnawa. Parmi eux, les deux plus jeunes se sont échappés avant le retour au Maroc : le premier nous a dit qu'il allait au marché de Bologne pour acheter quelques petits cadeaux pour la famille et il a disparu dans la foule, l'autre, quand on la accompagné à l'aéroport de Milan, nous a demandé de garder un œil sur sa valise un instant, car il allait une seconde aux toilettes avant de s'embarquer et on ne l'a plus jamais vu. Moi j'ai pris un grand risque personnellement, en tant que responsable de leur présence en Italie et de leur retour au Maroc.
Il y avait eu aussi une fête-concert-rencontre au Livello 57, un centre social autogéré et occupé de Bologne, que Georges a souvent fréquenté, soit pour l'intérêt pour les dynamiques d'autogestion collective, soit pour comprendre le passage de la culture hip-hop à celle des rave-party et plus en général pour étudier le phénomène de l'usage de drogue, des états modifiés de conscience et du mouvement antiprohibitionniste. En plus des Gnawa, il y avait un groupe venu du Salento, de joueurs et chanteurs de pizzica[9]. Georges était vraiment à l'aise, il était bien dans cette ambiance colorée, aux tonalités humaines très fortes. Il connaissait déjà Omar Hayat, il a présenté les Gnawa, leur rituel et il était très amusé par son nouveau vêtement traditionnel : une sorte de costume d'Arlequin, constitué d'ensembles colorés, tous différents, un patchwork qui représentait bien les origines pauvres de cette tradition mais qui évidemment était très bien cousu avec de nouveaux tissus brillants pour l'occasion et non pas avec de vieux morceaux de tissus, en tout cas c'était un symbole très fort de métissage ... Georges, toujours dans son ton provocateur et affectueux!
Les 24-25 octobre 2000, Georges Lapassade participa à la rencontre avec Ivan Illich et Gino Stefani, mon ancien directeur de thèse en Italie[10]. Cette rencontre fut historique et non seulement pour moi : Ivan Illich à l'école populaire de musique Ivan Illich de Bologne! Finalement j'avais réussi à réunir devant moi trois maîtres qui improvisaient la rencontre avec notre communauté vivante. Pour l'occasion, comme d'habitude dans les moments importants de ma vie, même mes parents sont venus de l’ile de Sardaigne, sur le continent : ce fut une vraie fête!
La participation à deux aux colloques continua : en 2001, les 12-14 février, nous étions ensemble à l'université de Lecce pour le colloque « Identità locali e pensiero meridiano a quarant'anni da « La terra del rimorso », et encore les 6-8 septembre, pour le colloque « I Sud e le loro arti ». Nos interventions ont été publiées en 2001, dans le livre collectif dirigé par Piero Fumarola « I sud e le loro arti ». Le 9 mars 2002, à Bologne, colloque sur le néo-tarentisme auprès du Container Club, les 8-10 novembre 2002, au premier convivium international « Festa e riti teatrali del'oggi, verso un' arte transitiva », Fossa (Aquila), Teatro « La Fragolina », organisé par la compagnie théâtrale « Zeroteatro ».
Pendant ce temps j'ai continué mes études avec Georges et Remi Hess à Paris 8, où j'étais inscrit pour le Doctorat en Sciences de l'Education et le 20 octobre 2004 j'ai soutenu ma thèse[11].
A partir de 1999 j'ai participé aussi, avec Georges, aux colloques d'Analyse Institutionnelle qui se sont déroulés chaque année à l'université Paris 8, jusqu'au dernier, en juin 2008, quand pour la première fois Georges n'était pas là parce que très malade. J'ai vécu la naissance du collectif « Les IrrAIductibles », dont je suis membre de la rédaction transfrontière de la revue homonyme; j'ai toujours participé aux réunions hebdomadaires quand j'étais sur Paris, et Georges était toujours là. Georges me proposait toujours d'écrire dans la revue « Les IrrAIductibles » au sujet de la réalité autogérée que j'avais fondée et que je coordonnais à Bologne : j'ai donc publié plusieurs articles à ce sujet[12].
Mais l'ouverture de Georges allait bien au-delà de moi, en ce qui concerne l'implication à écrire dans la revue. Par exemple, il avait voulu publier un article de Noemi Bermani[13] et un autre de Giusi Lumare[14], les deux impliquées avec moi dans la gestion de l'Ecole Populaire de Musique Ivan Illich à Bologne, jusqu'à la crise et à la scission de 2006. Toutes deux fréquentaient l'université Paris 8.
Georges m'a toujours aidé et stimulé dans mon parcours de recherche et non seulement cela.
Quand il avait décidé d'acheter la maison au 2, rue de la Liberté, juste devant l'université que de quelque manière il avait contribué à fonder à Vincennes, il l'avait fait d'abord pour des raisons pratiques. En effet il avait un certain âge et le studio dans lequel il avait habité jusqu'alors, dans l'île de Saint-Louis (dans le même bâtiment où habitait aussi Gilbert Rouget, autre grand intellectuel, spécialiste des « musiques et transes »), c'était au 4ème ou 5ème étage d'un vieux building avec des escaliers en colimaçons, en bois très raides. Il m'avait demandé de lui donner un coup de main, pour faire le déménagement; quand j'ai trouvé la disponibilité de deux amis : Denis Robert (le chanteur présent à la crémation) et Badia, avec leur fourgonnette. Il m'avait dit qu'il n'y avait pas grand-chose, quelques livres... Quand on est arrivés là-haut, tout devait être rangé, il n'y avait rien encore dans les caisses en carton, et naturellement... il y avait une « petite » bibliothèque. Toutefois, la chose à laquelle il tenait le plus c'était son bureau en bois massif et brut, extrêmement lourd. Ce fut une journée interminable de travail et finalement on a fini le déménagement.
Je suis rentré pratiquement avec Georges dans sa nouvelle maison à Saint-Denis. Au départ c'était très amusant, parce que Georges ne restait pas tranquille, chaque semaine il voulait changer de chambre, il ne parvenait pas à vivre dans une maison aussi grande, il voulait tout en explorer et quand enfin je me étais installé dans une chambre, il me disait que les Italiens ont un très bon goût dans l'aménagement, que ma chambre lui plaisait beaucoup, qu'on aurait pu changer avec la sienne. En tout cas, c'était fini l'époque à laquelle Georges dormait à l'université, sur une chaise-longue, dans son petit bureau, pour éviter de perdre son temps dans le métro, en voyageant entre la banlieue et le centre de Paris. Ce n’était pas terminé par contre, l'époque du « meilleur restaurant de Paris ». C'était comme ça que Georges appelait le resto-U, dans lequel il aimait manger avec les étudiants, midis et soirs, ce que les professeurs universitaires d'aujourd'hui, même soixante-huitards, font de moins en moins.
La maison, dans laquelle au début habitaient seulement Jacky Lafortune, Georges et moi, était devenue rapidement bondée d’étudiants provenant de partout : du Maroc, du Ghana, de l'Algérie, de la Géorgie... étudiants qui avaient besoin d'être hébergés et que Georges stimulait quotidiennement dans leurs parcours d'études. Il s'agissait d'une sorte de groupe de recherche instable, un peu confus, qui pour commencer essayait de cohabiter et de se connaître. Mais on avait aussi la possibilité de se confronter au jour le jour avec les propositions actives que Georges n'arrêtait jamais de lancer avec ses tentatives d'impliquer les étudiants dans les recherches en cours à l'université.
Un jour, alors que j'étais rue de la Liberté, et que le professeur Remi Hess le visitait, il m'a appelé et nous a dit : « Je veux que vous soyez témoins, tous deux, de mes volontés, si je meurs... je veux que cette maison devienne un centre pour l'accueil des étudiants étrangers qui n'ont pas d'argent et qui font des recherches sur l'interculturalité ». En effet, c'était déjà comme ça, vu le nombre d'étudiants de diverses origines qu'il a toujours accueillis.
Il m'a hébergé à chaque fois que je venais à Paris, jusqu'à la soutenance de ma thèse de doctorat. Mais à partir de ce jour-là, le 20 octobre 2004, comme s'il s'agissait d'un rituel d'initiation à la vie, comme une sorte de rituel de passage générationnel et de changement de rôle dans la communauté, il ne m'a jamais plus permis de dormir chez lui, il m'a substitué avec d'autres étudiants et il m'a fait comprendre clairement que désormais notre relation était changée. Au contraire, il n'a jamais arrêté de se confronter avec moi, de me demander ce que j'étais en train de faire, et de me donner des suggestions et des opportunités pour mes recherches et mon étrange « carrière » de chercheur et « troubadour ».
En décembre 2005, janvier 2006, il est venu en Sardaigne, pour passer les vacances de Noël chez moi, chez mes parents, qu'il avait déjà rencontrés plusieurs fois, et qui ont encore aujourd'hui un souvenir très important de son humanité et de ces rencontres. Il était déjà très fatigué à l'époque, et on passait le temps à faire une enquête, un dialogue, un entretien : il voulait surtout comprendre la crise du groupe de l'Ecole Populaire de Musique Ivan Illich, les raisons de ma dissociation. J'ai enregistré et tapé environ cent pages de questionnement. En réalité il m'a beaucoup aidé à affronter et dépasser ma crise existentielle liée à la crise collective d'un mouvement et il m'a aussi appris comment faire une enquête.
Aujourd'hui je m'occupe d'un site internet dédié à Georges Lapassade en Italie[15], j'essaye de participer aux initiatives qui ont lieu en hommage à Georges et qui relancent ses pratiques et ses théories, je suis en train d'organiser un convivium qui se déroulera à Bologne les 8, 9 et 10 mai 2009, à l'occasion de son anniversaire.
Sociologue, pédagogue, philosophe, ethnologue... Jamais il n'a été possible de l'encadrer dans une discipline car il pratiquait une approche transversale rigoureuse. Il mettait toujours le doigt là où ça fait mal, au niveau social, toujours fidèle au hic et nunc, l'ici et le maintenant.
Il aimait voir les jeunes jouer, danser jusqu'à la transe. Il aimait les Gnawa du Maroc, les « pizzicati » du Salento, les tenores et la danse en cercle sarde. Il aimait tous ceux qu'il a stimulés et aidés à étudier en prenant des risques, en se mettant en jeu dans les conflits qui résultent d'une critique sociale permanente très aigüe.
Il nous laisse un héritage énorme de pratiques, de réflexion, de stimulations et surtout l'envie de continuer à vivre l'inachèvement de l'homme.

Salvatore Panu

[1] Groupe des femmes ouvrières qui chantent des chants traditionnels de travail liés à la récolte du riz. « Mondare » signifie nettoyer le riz.
[2] DAMS (Discipline des Art, Musique et Spectacle), Faculté de l’Université de Bologne.
[3] 1997, Thèse de laurea au DAMS de Bologne intitulèe “Arte e istituzioni totali, produzioni spontanee in contesti di difficoltà a vivere, l’archivio di scrizioni, scritture e arte ir-ritata della cooperativa Sensibili alle Foglie, dirigèe par le prof. Alessandro Dal Lago.
[4] PANU, S., 1997, Culture de la fête et société du spectacle : interculturalité dans la musique populaire galluraise, mémoire de DESS, Université Paris-8, Département d’Ethnométhodologie, dirigé par Remi Hess.
[5] Le chant à « tenores » est un chant polyvocal traditionnel sarde à quatre voix masculines.
[6] PANU, S., 1998, “Georges Lapassade”, in Beta, mars, Tempio Pausania.
[7] PANU, S., 2001, Il mito sardo, cultura della festa e società dello spettacolo, Dogliani, Sensibili alle foglie.
[8] PANU, S., 2005, Un dispositif anthropologique provocateur : la recherche-action d’Oliena (Sardaigne) sur l’opposition « tradition-modernité », in Les irrAIductibles, revue interculturelle et planétaire d’analyse institutionnelle, Université Paris-8 : n° 7 (février-mars), « Des dispositifs II », pp. 309-323.
[9] Danse et musique traditionnelles liées aux rituels du tarentisme dans le Salento.
[10] PANU, S., 1991, Innovazione e uso sociale della musica nell'attività di alcuni gruppi giovanili a Bologna (1989-1991), Thèse de laurea en Sémiologie de la musique, sous la direction de Gino Stefani, Université de Bologne.
[11] PANU, S., 2004, Le mythe de l’école. L’expérience de l’Ecole Populaire de Musique Ivan Illich (Bologne 1985-2004), thèse de doctorat en sciences de l’éducation, Université Paris 8 – Vincennes Saint-Denis, U.F.R. 8, présentée et soutenue publiquement le 20 octobre 2004, Directeur de la thèse : Rémi HESS. Jury : Patrick BOUMARD (Université Rennes-2) président, Christine DELORY-MOMBERGER (Université Paris-13), Rémi HESS (Université Paris-8), Georges LAPASSADE (Université Paris-8), Gilles BOUDINET (Université Paris-8), Ruben BAG (Universidad Pedagociga National de Mexico), Elysabeth CLAIRE (Performance Studes New York University).
[12] En 2004, Le mythe de l’école. L’expérience de l’Ecole Populaire de Musique Ivan Illich (Bologne 1985-2004), n° 6, pp. 295-298. En 2006, Education toute au long de la vie. L’expérience de l’école populaire de musique Ivan Illich, n° 9, pp. 179-218. En 2007, Une application de Groupes, organisations et institutions : l’école populaire de musique Ivan Illich de Bologne, n° 11, pp. 185-230. Et encore en 2007, En dehors du chœur : crise d’une école autogérée (Ecole populaire de musique Ivan Illich 2005/2006), n° 12, pp. 125-178.
[13] Où nait l’arbre en chocolat? Expérience d’un parcours didactique concernant les relations Nord/Sud dans des écoles primaires de Bologne (Italie), paru en 2005 dans le numéro 7 de Les IrrAIductibles, pp.225-244.
[14] Actuellement doctorante en Sciences de l’Education à Paris 8 sous la direction de René Barbier, l’article s’intitule Spiritualité laïque et connaissance, numéro 9 de la revue Les IrrAIductibles, pp.305-316.
[15] http://georgeslapassade.blogspot.com/